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Per un pensiero altro

Il coraggio di vivere

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

Pensiero altro 21 febbraio 2024

“Todo se lo robamos,/ no le dejamos ni un color ni una sìlaba:/ aquì està el patio che ya no comparten sus ojos,/ alli la acera donde acéchò su esperanza” (Tutto gli abbiamo rubato,/ non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:/ qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,/ là il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza) scrive Jorge Luis Borges in “Rimorso per qualsiasi morte”, mi limito a ricordare l’assurdo che il mondo non abbia mai celebrato la grandezza del poeta argentino assegnandogli il Nobel per la letteratura e ne riporto dei versi per affrontare un tema tanto inquietante quanto imprescindibile: cosa significa morire. Certo, biologicamente non è difficile definirlo e stabilirlo, ma è evidente che un pensiero “altro” non può limitarsi a una parte della questione, se il corpo muore, io che l’ho utilizzato e in esso mi sono riconosciuto come sto morendo? Non mi interessa percorrere riflessioni di natura religiosa che, se estremamente interessanti e significative anche in chiave teologica, antropologica, sociologica e privata, non rientreranno in queste righe; mi interessa di più l’aspetto filosofico anche se, forse e spero, non del tutto ortodosso. Un appunto da tenere a margine della nostra riflessione è necessariamente il “vivere per la morte” di Heidegger che ci invita a una “vita autentica”, già, poichè la consapevolezza della nostra finitudine dovrebbe, piuttosto che spaventarci e ridurci a timorosi avventori della vita, liberarci dall’angoscia e invitarci al godimento più pieno del poco tempo a disposizione. Credo che se avessimo la certezza che ci restano solo pochi giorni di vita cercheremmo di realizzare tutto quello che non abbiamo avuto il coraggio di fare per paura del giudizio degli altri, per vergogna o anche perchè consapevoli che l’energia a disposizione non ci avrebbe sorretto a lungo in sfide così impegnative. Certo, può essere che qualcuno decida di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, o qualche macigno dal cuore fino a fare del male ad altri esseri umani che magari portavano altrettanto peso sul proprio, ma mi auguro sia una minoranza utile a sorridere della maggioranza.

Siamo gli unici animali che hanno consapevolezza di “avere un termine” e sempre gli unici che abbiano “creato un dopo”, inevitabile, necessario, funzionale? Certo siamo “animali teleologici”, abbiamo la necessità di riconoscere o attribuire un senso alla nostra vita che altrimenti, nella nostra prospettiva, si ridurrebbe alla sopravvivenza. Va detto che diverse filosofie propongono un accettarsi come fluire senza determinarne una ragione o “un fine” e, di conseguenza, “una fine” definitiva e irreversibile, sia nel pensiero orientale che in alcune sfaccettature della filosofia occidentale, ma nelle riflessioni anche dei mistici più convinti la paura della morte permane più o meno evidente. Mi torna alla mente un’osservazione di Sigmund Freud nelle sue Considerazioni inattuali sulla guerra e sulla morte: “C’è in noi un’evidente tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo messo a tacere il pensiero (…) Insistiamo in genere sulla causa accidentale della morte: incidente, malattia, infezione, tarda età rivelando così una tendenza ad abbassare la morte da fatto necessario a fatto casuale” cos’ì come le numerose perifrasi per indicare la signora con la falce. È raro sentir dire che una persona è morta, di solito si ricorre a formule più sfumate come non è più fra noi, ci ha lasciati, è scomparso, se ne è andato, è passato a miglior vita, è trapassato; siamo abitati da una sorta di timore-pudore a parlare della morte in maniera esplicita, la nostra è una società progressivamente sempre più atea che ha paura della morte eppure fiorisce di romanzi e film e serie televisive frequentati da fantasmi, angeli e spiriti che tanto fanno battere il cuore.

Può aiutare il monito epicureo che invita a non temere la morte? “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla, né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non ci sono più”; molto logico ma inefficace quando la ragione lascia il posto all’emozione. Potremmo ricorrere alla ben nota affermazione prospettica e relativistica che “ciò che per il bruco è la morte noi la chiamiamo farfalla” ma ben sappiamo che il bruco non teme il suo trapassare non avendone consapevolezza e la farfalla non si compiace della sua meravigliosa trasmutazione. Non possiamo evitare di misurarci con la morte, non fosse altro che per comprendere meglio la vita, è una necessità del nostro pensiero conoscere anche per negazione. In verità va detto che, pur essendo inevitabilmente i protagonisti della nostra morte, riusciamo a vivere davvero solo quella degli altri, almeno nel momento e soprattutto nel dopo, “l’uno vive la morte dell’altro, come l’altro muore la vita del primo” e questo non chiarisce esattamente cosa intendere per morte. Lo stesso Eraclito ci invita a comprendere attraverso il perenne conflitto fra le antitesi così da acquisire maggiore consapevolezza attraverso una visione dialettica degli opposti, diventa allora interessante sapere cosa intendiamo come antitesi alla morte e, nella cultura greca, l’opposto a Thanatos non è Bios o Zòé ma Eros. Sono vivo solo se amo, se amo la vita in tutte le sue forme e, addirittura, “sora nostra morte corporale”, allora diventa irrinviabile la domanda: abbiamo ancora il coraggio di amare nel senso più alto del termine? Non ci stiamo confinando nella virtualità del sentimento che, così edulcorato, rischia di non essere pericoloso ma nemmeno più una risposta alla morte?

Mi sembra si stia scivolando lungo il piano inclinato dell’anestesia esistenziale che ci immunizza dalle emozioni profonde, che non fanno male ma nemmeno conservano più il sapore buono della vita, anche il “carpe diem” oraziano è divenuto monco così privato del “memento mori”, si è ridotto a un superficiale edonismo del momento. Ovviamente non credo di poter suggerire nessuna verità né alcuna “ricetta per la vita felice”, lascio tutto questo ai dogmatici e agli autori di facili, improbabili ed effimeri best seller, posso solo riflettere con chi mi legge intorno a un possibile approccio onesto e coraggioso alla questione: credo che si possa affermare che morire è un essere assenti o un non poter essere più qui o un non essere più nulla, ma questo non ci apre porte alle certezza, piuttosto alla fede alla speranza o all’autoinganno. Ricorriamo ancora una volta alla saggezza del pensiero greco impiegando il metodo scettico dell’epoché, la sospensione del giudizio, almeno per un momento. Proviamo a vedere la morte come un orizzonte oltre il quale non possiamo sapere cosa è e cosa supponiamo o speriamo sia, un orizzonte oltre il quale potrebbe essere il nulla, ma, soprattutto, proviamo a riportare la nostra attenzione liberata della prospettiva dell’ulteriore come tempo che assegni senso all’adesso, in valore assoluto o banalmente come premio o punizione, ebbene, secondo molti questo atteggiamento potrebbe indurre al nichilismo: non sono d’accordo. Non è vero che se non colloco sopra di me o, comunque, in un altrove inaccessibile i valori della mia esistenza questa può acquisire senso e direzione, anzi, reputo questo il vero nichilismo poichè ho così rinunciato a credre nella mia capacità di essere un creatore di valori, abdico e mi consegno a un potere che non sarà espressione della mia volontà di essere ma piuttosto della mia incapacità di divenire. Lo so, ancora una volta c’è molto Nietzsche in questo, ma liberato dal fraintendimento che la mia volontà di potenza sia da esercitarsi sugli altri, io chiedo di poterla esprimere per me stesso consapevole che il mio divenire è figlio di ciò che faccio e delle ragini per cui lo faccio mentre sono vivo poichè essere vivo è essere responsabile del proprio agire, conservare uno sguardo pulito e regalare sorrisi lasciando giudizi e censure ai supponenti e ai frustrati.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli

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