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I dieci serial killer più feroci della storia d’Italia (seconda parte)

"Nera-Mente" è la rubrica di Alice: un viaggio tra i fatti oscuri dell'attualità

Nera Mente 10 luglio 2021

Sono almeno dieci i serial killer più feroci del nostro Paese, quelli che con i loro omicidi, procurati con armi da fuoco, fendenti o veleni, hanno messo fine alla vita di decine di persone, uomini, donne e bambini, senza distinzione alcuna di genere o di età, tenendo col fiato sospeso l’opinione pubblica. Questi soggetti non si limitavano ad uccidere una sola volta, ma ripetevano i loro delitti, spesso utilizzando una firma che potesse contraddistinguerli e venendo etichettati come veri e propri mostri, prima che la giustizia facesse loro scontare la pena che meritavano. Dopo la prima puntata ecco gli ultimi cinque dell’elenco, le cui storie fanno rabbrividire ancora oggi.

DONATO BILANCIA, “IL MOSTRO DELLA LIGURIA”

Donato Bilancia, detto Walter, è stato sicuramente uno dei più temuti serial killer italiani. Originario di Potenza, si trasferisce con la madre casalinga ed il padre, impiegato statale, prima ad Asti e poi a Genova, dove consumerà la maggior parte dei suoi delitti.
Un padre ed una madre che gli segnarono la vita fin dall’infanzia: Bilancia, da bambino, era mini dotato e affetto da atrofia degli arti inferiori, e, secondo quanto raccontò allo psichiatra incaricato di valutare la sua capacità di intendere e di volere, il padre lo costringeva ad abbassarsi gli slip davanti alle cuginette e a mostrare quel poco che aveva fra le gambe fra gli ironici sorrisini delle ragazzine.
Anche la mamma non eccelleva in sensibilità: Donato soffriva (e dopo quanto detto forse si può capire perché) di enuresi notturna, e sembra che la madre si divertisse a mostrare pubblicamente, dal balcone, il materasso bagnato di pipì di suo figlio.
Giocatore compulsivo, dopo un esordio criminale nel suo mondo, quello delle bische clandestine, con i sette omicidi genovesi (la prima vittima fu Giorgio Centanaro nella sua casa, soffocato con del nastro adesivo, ma dagli inquirenti questa venne archiviata come morte naturale. Fu lo stesso killer a confessare l’assassinio perché era stato disonorato e truffato al tavolo da gioco),
Donato Bilancia aveva cambiato ambiente per delinquere. Prima, nel mondo della prostituzione, poi verso il mondo delle persone comuni, dei viaggiatori, diventando il personaggio che noi tutti ricordiamo, il serial killer dei treni, il “mostro della Liguria”. Questo passaggio, avvenuto quando Bilancia, una vita di rapine e furtarelli, sempre ai limiti della legalità, era ormai un uomo maturo, lo ha portato sui piccoli schermi, protagonista indiscusso dei telegiornali. Incredibilmente accessibile e paurosamente vicino a tutti noi, era diventato un predatore onnivoro che uccideva chi gli capitava a tiro, eccitato dalla paura e dall’impotenza della vittima.
Grazie ad una prostituta, da lui creduta morta, e ad un’altra serie di evidenze, Bilancia venne arrestato e condannato a tredici ergastoli per aver commesso una serie di diciassette omicidi tra il 1997 ed il 1998, nell’arco di sei mesi.
Scontò inizialmente la sua pena al carcere di Marassi, poi in quello di Chiavari, per essere infine trasferito nel carcere Due Palazzi di Padova. Qui morirà Donato Bilancia, il 17 dicembre 2020, all’età di 69 anni, dopo aver contratto il Covid.
“Andrò all’inferno, ma chiederò scusa alle vittime”, sono state le sue ultime parole.

MARCO FURLAN E WOLFGANG ABEL

Firmavano le loro azioni con il nome di “Ludwig”, Marco Furlan e Wolfgang Abel, altri due serial killer della storia d’Italia. Tra il 1977 e il 1984 hanno ucciso quindici persone in Veneto, scegliendo le loro vittime tra prostitute, sacerdoti, nomadi e omosessuali, oltre ad aver commesso una serie di altri omicidi in Germania e nei Paesi Bassi. Il loro obiettivo era quello di ripulire il mondo da tutto ciò che fosse “deviato”. Vennero arrestati dopo aver tentato di dare fuoco alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere. Non solo. Nel maggio del 1983 già avevano incendiato un cinema a luci rosse di Milano provocando la morte di sei persone. Oggi Abel è in semilibertà, e Furlan è libero.

MARCO BERGAMO, “IL MOSTRO DI BOLZANO”

Marco Bergamo, il serial killer di Bolzano, è stato condannato ben quattro volte all’ergastolo e a trent’anni di reclusione per l’assassinio di cinque donne, crimini commessi tra il 1985 e il 1995. In questi dieci anni Bergamo, che di mestiere faceva l’operaio e conduceva una vita apparentemente tranquilla accanto ai genitori anziani, ha ammazzato tutte ragazze giovani. La prima, Marcella Casagrande, era una vicina di casa e aveva solo quindici anni quando è morta. Tranne la quarantunenne Annamaria Cipolletti, tutte le altre vittime erano di età compresa tra i diciannove e i ventiquattro anni. Si tratta di Renate Rauch, Renate Troger e Marika Zorzi, morte nel 1992 a distanza di pochi mesi l’una dall’altra.Precedentemente, in quell’anno, il killer subì l’asportazione di un testicolo. Menomazione che, unita a problemi di impotenza sessuale, accrebbe la sua rabbia e il suo odio verso le donne.

MAURIZIO MINGHELLA

Maurizio Minghella, detto anche “il mostro del Valpolcevera” o il “killer delle prostitute”, è ancora in carcere per aver violentato e ucciso cinque donne, tra le quali una quattordicenne, tra la primavera e l’autunno del 1978. Classe 1958 ed ex pugile, è stato condannato a 131 anni di carcere per aver commesso una serie di dieci omicidi di prostitute avvenuti fra il 1996 e il 2001 a Torino, quando era in stato di semilibertà. L’ultima delle sue vittime ad essere identificata è stata, nel febbraio del 2017, Floreta Islami, 29 anni, strangolata a Rivoli, cittadina in provincia di Torino, il 14 febbraio del 1998. Il caso è stato riaperto dopo gli esiti degli esami sulle tracce biologiche rinvenute sulla sciarpa utilizzata come arma del delitto. I risultati hanno confermato la corrispondenza con il profilo genetico di Maurizio Minghella.

MILENA QUAGLINI

Tra la ristretta cerchia delle donne serial killer della storia d’Italia (forse è meglio dire di quelle conosciute), troviamo Milena Quaglini, classe 1957, nata in una modesta famiglia della provincia pavese.
Il padre era violento, sia con lei che con la madre. Milena riuscì ad andarsene di casa, a diplomarsi e trovare lavoro come contabile. Conobbe quello che fu il suo primo marito, da cui ebbe un figlio. Peccato che l’uomo era malato di diabete e morì prematuramente.
Capace e intelligente al di sopra della media, Milena diventò in poco tempo caporeparto del centro commerciale di Pavia. Lì incontrò Mario, anche lui separato, anche lui più vecchio di dieci anni. Nel 1992 Milena era di nuovo incinta. Quando la bimba nacque suo marito cominciò a mostrare insofferenza verso Dario,il figlio di lei, tanto da confinarlo a dormire in garage. La famiglia dalla quale Milena era scappata da giovane, per ironia della sorte si riformò, identica, attorno a lei. Mario divenne violento e lei cominciò a bere. Quando nacque anche la seconda figlia la situazione era ormai drammatica: Mario non riusciva a tenersi un lavoro, era pieno di debiti.
Milena se ne andò di casa e trovò un lavoro come addetta alle pulizie in una palestra. I soldi erano sempre pochi, così quando incontrò Giusto Dalla Pozza, 80 anni e lui le propose di pagarla perché lo accudisse, lei accettò. Dalla Pozza sembrava molto sensibile ai suoi problemi finanziari, tanto che le propose un prestito di quattro milioni di lire. Un giorno, però, quell’uomo disinteressato le chiese indietro il denaro. “Cosa pensi che ti abbia dato i soldi a fare? Sei una stupida, non hai capito niente”. La afferrò per un braccio e la spinse sul letto, tentando di violentarla. Milena prese una lampada e lo colpì forte, così forte che cadde a terra in un lago di sangue. Fuggì. Poche ore dopo tornò sul luogo del delitto, completamente cambiata, consapevole, pronta a gestire le conseguenze di ciò che aveva fatto. Avvertì la polizia spiegando di aver trovato l’anziano a terra, forse vittima di un’aggressione o una rapina. La storia venne archiviata come incidente. Milena tornò dal suo carnefice, dal marito Mario. L’uomo accettò di riprenderla in casa, ma dopo un po’ ricominciarono i maltrattamenti. Fino a una notte, quando, dopo le ennesime botte, mentre il marito dormiva, lo soffocò, avvertendo lei stessa i carabinieri.
Condannata a una pena ridotta per seminfermità mentale, Milena, una volta uscita, non sapeva dove andare, così rispose ad un annuncio sul giornale, da parte di un uomo separato che cercava una convivente. È così che Milena incontrò Angelo Porrello, pregiudicato per abusi sessuali su minori, la sua terza vittima. Dopo che l’uomo la stuprò, mise del veleno nel suo caffè e lo avvelenò.
A questo punto per Milena si aprirono le porte del carcere di Vigevano. Confessò tutto sostenendo che non era un’assassina, ma una vittima. “Quando qualcuno reagisce male, io reagisco peggio” disse la pluriomicida Milena Quaglini, che nella sua cella del carcere femminile sembrava aver ritrovato serenità. Dipingeva tranquilla, diligente, tanto che i terapeuti erano ormai convinti che stesse progredendo nel recupero. Finché una mattina fu trovata morta nella sua cella: si era impiccata con un lenzuolo, lasciando un biglietto di scuse ai suo figli: “Perdonatemi, non ce la faccio più”.

“Nera-mente” è una rubrica in cui parleremo di crimini e non solo, scritta da Alice: clicca qui per leggere tutti gli articoli

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