Lettera al direttore

Ricordo

Renata Scotto e l’ascolto dei tempi

di Jacopo Marchisio

renata scotto

Nella famosa incisione di Madama Buttefly diretta da Sir John Barbirolli e pubblicata dalla Emi nel 1966, Renata Scotto, eseguendo «Un bel dì vedremo», quando arriva alla frase «un po’ per celia… un po’ per non morire/al primo incontro» attacca la parola «morire» come nessun’altra interprete in tutta la copiosa discografia di quell’opera: correndo velocissima sulla prima sillaba per poi sfogare il suono sulle seguenti; e noi sentiamo, in quell’affanno improvviso, un’agitazione inquieta, come se Cio-Cio-San non fosse in realtà del tutto immune da quella paura di cui accusa Suzuki. È a tutt’oggi una soluzione originalissima, che fa saltare sulla sedia l’ascoltatore convinto di conoscere a memoria quella pagina e di sentirsela scorrere nelle orecchie come sempre accaduto.

Questo piccolo esempio spiega dove sia stata e tuttora sia, grazie a un copiosissimo lascito discografico e videografico, l’importanza artistica di Renata Scotto, della quale piangiamo il decesso (non la scomparsa: chi lascia tanta eredità non può scomparire): nel vulcanico talento espressivo costruito e affinato grazie a una prodigiosa sensibilità musicale. L’opera è prima di tutto teatro, le abbiamo sentito dire mille volte, ma teatro che si trasmette con la musica: e chi vi lavora deve trovare in sé il punto di incontro fra le due necessità.

Renata Scotto aveva ricevuto in sorte una voce magnifica, dal timbro chiaro ma corposo, delicato ma non esangue, pieno di colori sfumati, che aveva saputo plasmare grazie a un’intonazione prodigiosa (il suo orecchio aveva del leggendario) e al rigore di una tecnica d’emissione esemplare, fonte di una progressione di repertorio straordinaria: anche al prezzo di qualche durezza o forzatura, ma senza mai deflettere verso il parlato e intrecciandosi anzi con l’arte di un fraseggio sensazionale, capace davvero di scoprire in ogni frase, parola, sillaba del testo cantato un elemento rivelatore con cui illuminare il carattere del personaggio affrontato – unendo poi, specie a partire dagli anni americani, a tale fantasiosa sottigliezza d’accento una presenza scenica in nulla inferiore a quella delle più consumate attrici di prosa.

Interprete analitica (laddove la grande contemporanea Mirella Freni era piuttosto sintetica, ottenendo risultati di pari livello per via opposta, ma con identica sicurezza tecnica e musicale: e il disco di duetti che hanno inciso in coppia, imperdibile per ogni amante del teatro musicale, lo dimostra), la Scotto sezionava i propri personaggi, ma sapeva poi ricomporli in modo che ne vedessimo al contempo i dettagli e l’insieme, senza essere distratti nella percezione teatrale da quella stessa immensa bravura che ci faceva scoprire gli uni e l’altro; e la grande cultura musicale che, con curiosità e scrupolo, si era forgiata nel tempo – perché sapeva parlare con la stessa stupefacente competenza di qualunque compositore di ogni tempo e paese, anche fuori dal campo lirico – le consentiva di trovare sempre la più piena rispondenza stilistica alle richieste delle partiture, che stesse cantando Mozart (poco inciso, purtroppo) o Strauss (Marescialla assoluta: la si cerchi in rete), Donizetti o Puccini, Verdi o chiunque altro. Ciò, peraltro, che chiedeva agli allievi delle master class di cui siamo stati, negli ultimi anni, frequenti testimoni: e dove era maestra severissima e insieme capace di un’umanità che brillava come in un’epifania laica.

Non c’è solo l’importanza artistica e culturale, peraltro, nel lascito di Renata Scotto: c’è anche, in qualche modo, un’eredità civile. Si affermò assai giovane negli anni Cinquanta, per esplodere nel decennio successivo e ancora di più a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, quarantenne e cinquantenne, grazie al volano del Metropolitan: la sua carriera ha perciò accompagnato gli anni del boom; e nell’evoluzione del suo modo di cantare, di fraseggiare, di recitare si può avvertire in filigrana (certo inconsapevolmente: ma non importa, è attenzione innata allo spirito dei tempi) il percorso della vicenda nazionale, dall’entusiasmo della ripresa post-bellica e dell’apertura a nuovi stimoli intellettuali alla consapevolezza delle nuove nubi in arrivo dall’orizzonte.

Del turbinio del mondo intorno a lei, Renata – donna dalle antenne sensibilissime – seppe cogliere stimoli e spunti anche più di quanto fosse conscia ella stessa; e nel suo rigore, nella meticolosa cura delle esecuzioni, delle lezioni, nelle stesse evoluzioni del carattere ha mantenuto la freschezza di chi è interessato a tutto ciò che ascolta, che vede, che ha d’intorno; se conversavi con lei sapeva (e bene!) farti avvertire la propria importanza, ma al contempo ti allontanavi con la sensazione di essere importante anche tu. E in questa consapevolezza del proprio ruolo unita al rispetto profondo degli altri, del pubblico generale come del singolo interlocutore, era forse il segreto del suo successo.

Le regie che, per noi savonesi specie negli ultimi anni, hanno costellato l’ultima fase della sua attività, tradizionalmente leggibili e ben aderenti alle didascalie del libretto, ma attente a sfumature di recitazione e di gestione dello spazio che rifuggivano da ogni routine illustrativa per fare invece del solido e autentico teatro, lo dimostrano ulteriormente; e lo dimostra – ecco un vero elemento di importanza civile – lo slancio con cui la Scotto del XXI secolo si è impegnata lavorando nella propria città, al punto da diventarne non solo un vanto, ma un punto di riferimento fisico e riconoscibile quando la si incontrava, sempre sorridente, a passeggio per le vie del centro o seduta ad assistere a un’opera, uno spettacolo, un concerto, al Priamar, al Chiabrera, alla Stella Maris.
Non serve ripercorrere qui le tappe innumerevoli di una carriera gigantesca, i riconoscimenti ottenuti, il prestigio mondiale: Renata Scotto si spiega da sé e per sé. E per questo, anche dopo la triste giornata di oggi, rimarrà.

Jacopo Marchisio
per l’Associazione Il Rosso non è il Nero

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