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Per un pensiero altro

È vero, l’ho visto in tv

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

pensiero altro 8 novembre 2023

“L’essere delle cose è un percipi (essere percepito), e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono” scrive George Berkeley nel suo “Trattato sui principi della conoscenza umana”. L’affermazione del grande filosofo irlandese sottolinea come l’esperienza sensibile sia lo strumento fondamentale per far si che “le cose siano nella mente” del soggetto percipiente nel momento stesso in cui una mente pensante le esperisce. Non intendo affrontare il controverso tema dell’esistenza dei fenomeni indipendentemente dalla percezione di un soggetto, piuttosto riflettere circa il pur complesso problema dell’imprescindibilità dei sensi per l’acquisizione esperienziale del mondo rimarcando il ruolo fondamentale dell’organo della vista. Subito, però, mi sembra interessante ricordare che il maggiore aedo dell’antichità, il grande Omero, si narra fosse non vedente; che forse gli scritti più profondi di D’Annunzio siano da individuare nella stagione in cui era privo della vista, mi riferisco al Notturno; che uno dei maggiori scrittori del XX secolo, Jeorge Luis Borges, era non vedente. Non posso poi non ricordare, infine, le condizioni di Nietzsche che già nel 1873 era costretto a ricorre alla dettatura del saggio Su verità e menzogna in senso extramorale all’amico Carl von Gersdorff e che, da lì in poi, sarà costretto a vivere una realtà fatta di ombre e voci piuttosto che di persone-immagine. Questi grandi si aggirano in un mondo di ombre orfano dell’invadenza appiattente della luce eppure sembra riescano a cogliere la “verità delle cose” con maggiore acutezza di chi ricorre naturalmente alla vista.

L’antico adagio “verba volant scripta manent” sembra sottolineare come la parola meglio si avvicini alla fluidità mutevole della realtà che non può mai essere afferrata poiché, per dirla con Eraclito, “panta rei”, tutto scorre. L’essere umano è da sempre alla ricerca di un ordine stabile nel perenne divenire che lo circonda e del quale lui stesso è partecipe, la parola e la sua intrinseca organizzazione, la grammatica in senso nietzscheano, sono un meraviglioso e dinamico tentativo del suo impegno in quella direzione, nella stessa prospettiva si muovono la matematica, la geometria, la fisica, e così potremmo proseguire, ma, tornando al nostro incipit, oggi il mezzo principe per “fermare il fluire del divenire” sembra essere, ancor più della “scripta manent”, l’impiego invasivo e capillare del documento visivo: il video. Come afferma Riccardo Falcinelli, noto graphic designer insegnante di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma, “Viviamo circondati da immagini, in un numero enorme se confrontato con qualsiasi società che ci abbia preceduto. Gran parte di queste sono pensate per intrattenere, per raccontare, per sedurre, come quelle della fiction, dei videogiochi o della pubblicità. Un’altra parte è fatta per testimoniare o per spiegare: si tratta delle foto giornalistiche e delle immagini scientifiche. In entrambi i casi si mostra qualcosa e si afferma che quanto si sta mostrando è vero”. Senza scomodare il descostruzionismo di Derrida, è impossibile non comprendere quanto il rapporto tra “chi mostra e il fruitore dell’immagine” sia una sorta di mutevole linguaggio fondato su un dinamico rapporto fra gli attori della comunicazione. Uno dei problemi più importanti, mi sembra, si nasconda proprio nell’acriticità con la quale le immagini divengono documento inequivocabile a seconda degli strumenti critici dei quali dispone l’osservatore e dell’onestà intellettuale di chi propone il filmato.

Provo ad esplicitare con un esempio: quando nel 1905 gli spettatori del video di un treno che sbucava da una galleria fuggirono terrorizzati, il pubblico non era ancora in grado di distinguere la rappresentazione dall’evento e assegnava, inevitabilmente, valore di ”verità e realtà” a quanto i suoi occhi osservavano. Oggi non potrebbe accadere una cosa simile, anche se la gente continua a commuoversi davanti a film sentimentali e a spaventarsi con l’horror, tutti sono in grado di “decostruire e ricostruire il messaggio” scindendo il vero dal reale. La dinamica dei sentimenti è vera poiché corrisponde alla volontà del regista e degli attori e ben si riconosce nella disponibilità emotiva dello spettatore, acquista valore di realtà poiché tale si definisce nel soggetto attivo dello spettacolo, capace di critica, con diritto di giudizio, con volontà di emozione. Non possiede alcuna realtà al di fuori del soggetto ma unisce in perfetta simbiosi verità e realtà nella sua percezione, rappresentazione e acquisizione come atto cosciente e voluto. Negli ultimi decenni la cinematografia in 3D ha ancor più coinvolto gli strumenti percettivi del pubblico con effetti davvero notevoli, provate solo a confrontare uno dei meravigliosi classici disneyani alle più recenti produzioni, la verosimiglianza delle ultime è formidabile, la costruzione della profondità di ombre che stanno in perfetto equilibrio con la luce invera magicamente l’immagine che si mostra come realtà. Quanto è più “vera” l’immagine contemporanea rispetto a quella degli anni cinquanta? Ci può aiutare, in questa riflessione, un’affermazione di Tommaso Hobbes nel suo Leviatano: ““Vero e falso sono attributi del discorso, non delle cose. E laddove non c’è discorso non c’è nemmeno verità o falsità” che ben trova conferma nelle righe pirandelliane del suo saggio sull’Umorismo seppur datato più di un secolo or sono: “Nessun artista crede alla verità oggettiva, cioè reale in sé, del mondo che rappresenta. Ma si potrebbe dire che questa verità oggettiva, non solo per l’artista, non esiste per nessuno.”

La questione si sposta su un diverso piano nel momento in cui il paradosso dell’affermazione “è vero, l’ho visto in tv” non si misura più con la posizione di chi non dogmatizza il documento filmato ma coltiva una prospettiva critica, bensì con l’altrettanto paradossale “è più vero quello che ho visto io in internet”. A me sembra che il fondamento epistemologico di questo “dogmatismo bifronte” si possa riconoscere nella radice della filosofia di Emanuele Severino che scrive: “La “certezza” è una determinazione o qualità soggettiva (umana, mentale), mentre la “verità” è determinazione oggettiva.“ Con tutta la modestia con la quale è bene accostarsi al pensiero di giganti, mi limito a osservare che una “verità oggettiva” è per definizione inaccessibile al soggetto, una sorta di noumeno kantiano utile a livello metodologico ma solo se non diventa una verità assiomatica in quanto sarebbe madre di una tautologia: dimostro l’esistenza di ciò che ho arbitrariamente postulato come esistente. In verità si tratta di un atteggiamento diffuso e metodologicamente assai dubbio: assumere la tesi come certa al fine di dimostrarla. Mi sembra si possa riconoscervi quell’arroganza preconcettuale che è figlia dell’horror vacui che ci abita e che andiamo a colmare con la stessa ingenuità di chi afferma “è vero, lo certifica un video”. Va bene, nessuno scapperebbe più all’arrivo della feroce locomotiva dei fratelli Lumière, ma di quali strumenti disponiamo per la determinazione del vero specie se oggetto di informazione? Credo che la verità non sia nelle parole o nella “vecchia donnaccia ingannatrice”, nel logos che si specchia nell’universo, nei numeri o nella geometria e nemmeno, o forse tantomeno, nei filmati, così neanche nell’atto folle dell’uomo che la cerca e ne ha visione, come un beduino del deserto che si dirige verso un miraggio credendolo un’oasi, mentre la verità è l’orizzonte che segna un limite che si muove alla velocità del suo procedere, che è diverso a seconda del soggetto che osserva. Forse sarà opportuno ritornare al dialogo, a tutti i livelli, recuperare la peculiarità dell’essere umano, l’intelligenza condivisa attraverso la disponibilità all’ascolto, ma per certo non sono un aiuto le feroci e vacue diatribe di giornalisti e opinionisti servi di partiti, servi loro stessi di interesse economici, creati da uomini servi per opprimere altri uomini.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli

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