I can’t breathe. Questa è la frase che ha sconvolto il mondo intero, l’ultima pronunciata da George Floyd, ennesimo afroamericano ucciso a causa dell’incomprensibile violenza di un agente.
In rete, ma soprattutto sui social, è possibile trovare il video con il quale una persona ha documentato l’omicidio, scatenando l’ira di migliaia di americani che, dopo l’accaduto, hanno deciso di alzare la voce.
È così che è nato il movimento “black lives matter”, con migliaia di persone che hanno scelto di scendere in piazza (o più generalmente in strada) per chiedere giustizia e dire basta alle violenze dei poliziotti americani contro gli afroamericani.
Purtroppo si sa, a volte chi dovrebbe difenderci abusa del suo potere, incutendoci timore e a volte arrivando ad essere colui dal quale è necessario difendersi. Fortunatamente questi spregevoli individui rappresentano solo una piccolissima percentuale, quindi è sbagliato prendersela con tutte le persone in divisa. È anche vero però che, di fronte a casi come questo, è corretto esprimere la propria indignazione.
Molti pensavano che, dopo il lockdown vissuto a causa della terribile ondata di coronavirus (che sfortunatamente è ancora tra di noi, è bene ricordarlo), tutti fossero migliorati in qualche aspetto, diventando anche più solidali e generosi.
Sicuramente questo non è accaduto a Derek Chauvin, agente accusato di omicidio colposo per avere ucciso appunto George Floyd, premendo sul collo dell’indifesa vittima per 8 minuti e 46 secondi il suo possente ginocchio. Un gesto terribile, ma la cosa che forse sconvolge maggiormente è il totale disinteresse e l’apatia dimostrata dai colleghi di pattuglia. Nessuno ha provato a far smettere l’assassino, l’unica preoccupazione degli altri poliziotti è stata quella di tenere lontani gli increduli passanti.

I can’t breathe (non riesco a respirare) è stata l’ultima frase, ripetuta più volte da George, diventato ora simbolo di una protesta ormai mondiale. Come vi abbiamo infatti raccontato precedentemente un’ondata di sdegno ha travolto l’America e il resto del mondo, con migliaia, forse milioni di cittadini statunitensi che hanno scelto di manifestare per condannare il terribile gesto, chiedendo giustizia e la fine di queste becere violenze.
Sembra incredibile infatti, ma i giornalisti del Washington Post hanno calcolato che, in sette anni, sono stati uccise volontariamente dai poliziotti americani addirittura 7663 persone; il 24% di queste sono afroamericani. È corretto sottolineare che questa etnia rappresenta soltanto il 13% della popolazione USA; da qui potete iniziare a capire quanto sia dilagante un sentimento retrogrado e ingiustificato in quel Paese: quello del razzismo.
Il dato ancor più allarmante è che spesso questi crimini sono rimasti impuniti, ed è proprio per questo che la gente ha scelto di alzare la voce. L’omicidio di George Floyd deve segnare un punto di svolta: mai più si dovranno verificare casi simili negli Stati Uniti.
Una prima vittoria i manifestanti l’hanno già ottenuta: Derek Chauvin è stato arrestato (così come i suoi compagni di pattuglia) ed è ora accusato di omicidio colposo. Farlo uscire dal carcere non sarà oltretutto un’impresa facile: per il suo ritorno in società è stata infatti decretata una cauzione milionaria.
Giovedì, però, uno dei quattro ormai ex poliziotti coinvolti è stato rilasciato proprio su pagamento della quota decisa (750 mila euro). Stiamo parlando del 37enne Thomas Lane, accusato insieme a Tou Thao, J. Alexander Kueng di aver aiutato e favorito quell’omicidio.
Nel frattempo non si fermano le proteste in America, dove alcuni manifestanti hanno, però, perso la retta via. Per non incorrere in spiacevoli incomprensioni ci spiegheremo meglio. Chi protesta in modo pacifico ha tutto il nostro appoggio e, ovviamente anche noi, speriamo che giustizia venga fatta.

È assurdo, però, che per far valere i diritti di George e di tutti gli afroamericani vengano rapinati e bruciati dei negozi. I poveri commercianti già duramente colpiti dall’emergenza coronavirus non hanno bisogno di questo!
Il razzismo, a nostro parere, non si combatte neanche abbattendo o vandalizzando statue rappresentanti simboli o personaggi del passato. Sicuramente Cristoforo Colombo non avrà avuto buoni rapporti con i nativi americani, ma che senso aveva abbattere la sua statua presente in Minnesota?
La miglior risposta alla violenza è la pace, questo dovrebbe essere un ideale comune, anche perché dispiace che pochi stolti diventino protagonisti delle cronache al posto di coloro che stanno portando avanti la propria battaglia sociale in maniera pacifica.
Chi è arrivato fino a qui si chiederà se questo articolo fa parte o meno delle chiacchiere sportive. Cari lettori, vi assicuriamo di sì e adesso vi illustreremo anche i motivi. Come vi abbiamo raccontato, la protesta si è diffusa prontamente anche oltre il confine americano, arrivando ad essere rappresentata anche nel mondo sportivo.

In Bundesliga per esempio, unico grande campionato europeo in fase di svolgimento fino alla settimana scorsa, sono stati diversi i giocatori che hanno deciso di commemorare Floyd.
Hakimi e Sancho, giocatori del Borussia Dortmund, hanno mostrato una maglietta sopra la quale, con una scritta, si invocava giustizia per lo statunitense; Marcus Thuram invece, calciatore del Borussia Monchengladbach, ha esultato dopo un gol inginocchiandosi, gesto messo in pratica per condannare il razzismo. Il capitano dello Schalke ha invece deciso di scendere in campo con una fascia speciale, anch’essa con una scritta invocante giustizia.
Anche in Inghilterra i giocatori del Chelsea hanno preso parte alle proteste inginocchiandosi durante una seduta di allenamento, mentre i capitani dei club di Premier League hanno fatto sapere alla lega di voler partecipare alla protesta.
A proposito, siamo felici di farvi sapere che non potranno esserci casi Colin Kaepernick nel calcio americano: la federazione ha deciso che i giocatori potranno inginocchiarsi durante l’inno nazionale. Trump quindi non potrà più infuriarsi come fece nel 2017 a causa del medesimo gesto compiuto dal quarterback sopracitato, senza squadra da allora.
In generale, spesso sportivi e lotte sociali hanno creato tra i due elementi una perfetta sintesi. Tutti ricorderanno ad esempio la lotta indipendentista portata avanti da Guardiola e Piqué, desiderosi di una secessione tra Spagna e Catalogna.
Alcuni giocatori turchi si sono schierati contro il regime oppressivo di Erdogan rischiando anche di incorrere in discriminazioni da parate dei sostenitori del presidente turco. Altri invece si sono schierati a favore delle scelte del leader turco, con i “nostri” Demiral e Under che, mesi fa, esultarono con il saluto militare per sostenere la sua campagna in Siria.
Ci sono anche alcuni che hanno scelto di combattere il cambiamento climatico come Hamilton, Alonso o Thorsby, mentre altri come Marchisio hanno preferito prendere le parti dei poveri migranti vittime di discriminazione.
Rimangono da citare gran parte dei club dell’NBA, schieratosi contro l’operato di Trump e Muhammad Ali, pugile deceduto nel 2016, attivo contro la segregazione razziale. C’è anche chi aiuta il quartiere povero dove è cresciuto come nel caso di Lebron James.

Insomma, spesso lo sport è sinonimo di divertimento e passione, ma anche di solidarietà, generosità e prese di posizione. La speranza è che presto episodi come quello accaduto in America diventino solo un triste ricordo.
Siamo tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle, tutti dovrebbero metterselo in testa. Black lives matter, all lives matter, basta razzismo!
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