“Infatti, cittadini, aver paura della morte non è nient’altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?” Sono parole di uno dei più importanti padri del pensiero occidentale: Socrate. Intanto ci presenta il grande tema della fede, già, perché il credente, intendo il termine in senso classico, deve essere certo dell’esistenza di una “altra vita dopo la morte”, se così non fosse non lo si potrebbe definire “credente” ma “supponente” o “fiducioso” o “speranzoso”. Non sono certo fosse credente e, soprattutto, in che modo, ma trovo oneste le parole di un uomo che ha avuto il coraggio di vivere afflitto dall’incombere della minaccia di una morte prossima e violenta che affermava: “Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà”; mi sembra opportuno completare la citazione per il rispetto assoluto che porto alla persona anche se esula dallo specifico contesto di questa riflessione: “Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento… Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”. Credo che in molti abbiano riconosciuto le parole di Paolo Borsellino. Quello che mi appare incontrovertibile è che il nascere non è frutto di una nostra scelta così come il fatto che l’atto stesso di venire al mondo comporti che ce ne si debba poi andare; ma anche il morire, se non molto raramente, non lo possiamo decidere nel come nel dove nel quando e nemmeno nel perché, siamo invece determinanti per tutto quanto accade nel frattempo.
Credo possano essere interessanti le parole di Leonardo da Vinci quando afferma che “Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire”; anche se sottolineerei che, nel momento in cui ci si addormenta si hanno altissime e fondate aspettative di risveglio, più complesso è il “momento fatale dell’addio definitivo”. Questo non ci esime dal tentare di vivere “una vita bene usata” anche se, al riguardo, diventa complesso fornire indicazioni certe su cosa debba intendersi, credo che chiunque abbia un proprio pensiero su come sarebbe più utile vivere ma che non molti sarebbero i possibili elementi comuni alle differenti prospettive. Io credo che un elemento costante e accomunante potrebbe essere l’affrontare ogni istante con lo stupore della prima volta e con l’intensità dell’ultima e ho conosciuto moltissime persone che hanno condiviso l’idea ma solo tre che siano riuscite a metterla in atto. Pablo Neruda affermava che “nascere non basta” ed esortava a “rinascere” come peraltro esorta anche il Vangelo di Giovanni. Sono convinto che rinascere significhi innanzi tutto avere precisa consapevolezza della propria caducità, della provvisorietà che dovrebbe indurci alla presa di possesso di ogni istante, quindi rinascere ogni momento, certo, senza rinunciare alla memoria di ciò che è stato, ma non per farsene zavorra, piuttosto trampolino; allo stesso modo non affermo il rifiuto della progettualità, ma non come fuga in avanti, come rinuncia e attesa, piuttosto come spinta a una maggiore intensità di vita nel presente per meglio edificare il futuro. A questo riguardo mi torna alla memoria il paradosso suggeritomi dall’amico Gershom Freeman parlando degli dei e degli eroi greci. Sosteneva, infatti, la superiorità della vita di un eroe mortale rispetto all’eternarsi immortale di una esistenza nella quale nulla può avere valore proprio perché non avrà mai fine.
Al momento ho raccolto la sua affermazione solo come provocatoria iperbole ma in seguito ho compreso quanto un immortale, certo, sempre ipotizzandolo e con la precisa consapevolezza dell’impossibilità del suo esistere, non potesse mai davvero essere felice. L’eroe, al contrario, è l’espressione più alta della possibilità di pienezza esistenziale, di una vita “bene usata”, per dirla con Leonardo, poiché è tale nel coraggio che esprime nell’affrontare il pericolo della morte. Uno dei più alti esempi di eroe classico è sicuramente Achille proprio perché sapeva di essere, seppur minimamente, vulnerabile e non solo, perché sfidava la morte e l’accolse divenendo finalmente immortale nella memoria collettiva. Certo, anche nel suo caso il mito racconta del suo “essere per sempre” nel Tartaro, ma sarà la successiva cultura giudaico cristiana a proporre come eroe solo il Cristo che, se muore, risorge, inarrivabile anche da parte dei santi per i quali si ha solo il premio del paradiso. Ma non avventuriamoci in sottigliezze teologiche, torniamo all’eroe. Non credo che l’eroe debba essere necessariamente la figura di chi compie un gesto eclatante, credo piuttosto, sulle orme di Pirandello, che sia “molto più facile essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini, si dev’essere sempre”. Ecco, il vero eroe è chi si edifica ogni giorno come un galantuomo, che non significa non commettere errori, non sarebbe umano, ma imparare da questi, scusarsi quando si fa involontariamente del male, provare a rimediare quando non si è capito, regalare un sorriso scusandosi per essere stati poco attenti, piccole meravigliose immense azioni che non suscitano acclamazioni, ma regalano bellezza, in silenzio. Insomma, l’esatto opposto della platealità virtuale dove esibire ciò che si reputa degno di lode e invidia occultando tutto ciò che si ritiene pericolosamente “normale”.
L’identità virtuale, che ha preso arrogantemente e surrettiziamente il posto di quella reale, si configura come la “proiezione eroica di un fallimento esistenziale di fatto”. Si finisce per identificarsi con quello che, in realtà, si è scordato essere solo il proprio avatar, non nel senso alto di un corpo che è mezzo per un’essenza di più spirituale natura, al contrario, come espressione di una volontà di essere ciò che si reputa meglio di quanto non si sia o si creda di essere. Va detto che identificarsi con una volontà non attiva nei fatti ma solo rappresentata, è una rinuncia alla possibilità di una “vita bene usata”. La permanenza ossessiva sul palcoscenico dei social sembra essere il mezzo per regalare presenza felice mentre è, nel momento dell’incontro con la moltitudine anonima dei follower, la celebrazione di infinite solitudini il cui rapporto non fa che accrescere la solitudine individuale. L’io profondo, quello spaventato e fragile, quello che viene negato pur essendo quello più vero, sopravvive nell’avatar che è costretto a negarlo sistematicamente nella celebrazione della propria immagine. Il risultato e la svaporizzazione dell’io e la creazione di una nebulosa collettiva che ha oramai preso il posto della società degli uomini. Come non ricordare le illuminanti analisi di Bauman che ha descritto la moderna comunità definendola una “società liquida”; credo, alla luce di quanto descritto, che sia più aderente alla nuova situazione l’espressione “società gassosa”. Una società dove conta poco essere “galantuomini” e diviene necessario essere “eroi” almeno nell’immagine pubblica che, ingannevolmente, sembra essere l’unica reale. Ecco chi sono gli eroi di oggi, individui soli, che non vivono una vita vera e non possono morire ma nemmeno vivere. Se è vero che ogni civiltà è riconoscibile dai propri dei come dai propri eroi, l’evanescente precarietà delle immagini oscillanti sulle sabbie mobili esistenziali di qualche algoritmo, non possono che rappresentare una “società gassosa” e, temo, il gas di cui stiamo parlando possa essere utile all’esistenza di qualche più o meno ben riuscito avatar, ma di certo è tossico per dei sani polmoni umani.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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