“Ma perché dare al sole,/ perché reggere in vita/ chi poi di quella consolar convenga?/ Se la vita è sventura/ perché da noi sì dura?” Si tratta di pochi versi estrapolati da uno dei più noti grandi idilli di Giacomo Leopardi; il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. L’interrogativo leopardiano, nella sua evidente valenza metaspaziale e metatemporale, assurge a carattere filosofico e il poeta recanatese propone anche una risposta abbastanza chiara: meglio sarebbe non procreare e poi, una volta venuti al mondo, l’unica salvezza è la solidarietà per difendersi dalla comune nemica, la Natura matrigna. Viene naturale ricordare il testo di Plutarco utilizzato da Nietzsche in La nascita della tragedia nel quale il pensatore tedesco racconta di come Re Mida, simbolo di potere e ricchezza ma assillato dalla brama di sapere, rivolga a Sileno, portatore di conoscenza e maestro di Dioniso, una domanda cruciale: Qual è la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo? La risposta di Sileno è tanto tragica quanto inquietante: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché vuoi sapere quello che per te sarebbe meglio non sapere?” Intanto, già in questa prima parte si contrappone al principio che origina la filosofia stessa, la ricerca della conoscenza, invita infatti all’animalesca inconsapevolezza, ma, poiché è peculiare dell’essere umano la ricerca del sapere ecco che Sileno non nasconde la terribile risposta: “Il meglio è per te non essere nato, non essere, essere niente”, insomma, una volta nati la cosa migliore sarebbe morire il prima possibile. Ancora una posizione antitetica a quella ben più diffusa che vede la vita come un dono del quale rendere grazie. Conserviamo a fondamento della riflessione che segue quanto appena accennato sulla scorta di due immensi tragici e sottolineiamo il fatto, direi inconfutabile, che il nascere non è una scelta del soggetto ma di chi, senza poterlo interpellare, gli impone di “essere dato al sole”. Siamo sicuri possa essere considerato un dono il soddisfare un’urgenza dei cosiddetti donatori?
La questione che si propone è, in termini giuridici, se è lecito definire il desiderio di maternità e, più o meno necessariamente anche di paternità, come un diritto. Se anche lo ponessimo come necessario alla soddisfazione biologica generata dalla presenza di un organo preposto allo scopo, il fatto che tale agire abbia effetti su un soggetto che, pur essendo assolutamente coinvolto, non ha potere di scelta al riguardo, non crea un drammatico problema etico? Nel caso di un tradizionale concepimento desiderato da entrambe i partner la questione rientra in un comportamento che si definisce “naturale” e che non suscita, almeno generalmente, dilemmi particolari; la questione si complica nel caso in cui i “potenziali” genitori, o anche solo uno dei due, non possono generare in quanto sterili. Sarebbe interessante tracciare un parallelo tra il concetto leopardiano di Natura matrigna e quello hegeliano di “astuzia della ragione” ma lasciamolo, per ora, come appunto a margine di questa riflessione, ciò che è certo è che il desiderio di procreare è indispensabile alla sopravvivenza della specie quanto è paradossale pensare che dei potenziali genitori intendano generare una nuova vita per garantire la presenza umana sul pianeta per i secoli a venire. Il desiderio dell’esperienza genitoriale si può risolvere anche con una adozione e tale pratica non rientrerebbe nell’ambito di una volontà superiore, Natura o Ragione che sia, ma arriviamo al caso specifico di questa riflessione: il caso in cui una coppia con gravi difficoltà generative di qualsivoglia natura, ricorre alla cosiddetta maternità surrogata.
Esistono diversi sistemi di Procreazione Medicalmente Assistita: fecondazione in vitro e trasferimento degli embrioni; iniezione introcitoplasmatica di sperma; gamete intra felloppian transfert; ectogenesi, ma non ci interessano in questa sede, la questione, al di là delle specificità mediche, è rilevante da un punto di vista etico. Il dibattito, al riguardo, è aperto e conflittuale poiché, come afferma Hans Jonas in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, “La natura dell’agire umano è mutata, e poiché l’etica è connessa con l’agire, da ciò dovrebbe derivare che la mutata natura dell’agire umano richiede anche un mutamento nell’etica”. È evidente che accresciute possibilità tecniche assegnino al comportamento umano una quota di responsabilità sempre più ampia e che normarla divenga compito dei governi ma, anche in questo caso, non tutti si muovono nella stessa direzione e la posizione della Chiesa Vaticana assume un ruolo rilevante, non tanto in senso politico, ma per l’incidenza importante nello coscienze dei credenti. Certo verrebbe da sottolineare che la posizione della chiesa avrebbe creato non poche difficoltà a Maria nel caso del concepimento di Gesù che potremmo registrare come una delle più antiche e conosciute esperienze di maternità surrogata. La filosofa britannica Mary Warnock già nel 1984 affermava che “la Chiesa cattolica non accetta la fertilizzazione in vitro, ma per me si tratta di un aiuto al concepimento, come il cesareo lo è al parto. A voler essere rigorosi, né l’una né l’altro sono naturali” e Carmel Shalev in Nascere per contratto sostiene che “un accordo di surrogazione può […] essere qualificato come un contratto per la vendita di servizi personali di procreazione”. Ma un simile contratto implica la messa a disposizione di parti del proprio corpo per fini di utile economico allargando la questione al mercato degli organi, alla prostituzione e, in qualche misura, a ogni forma di vendita del lavoro, ma circoscriviamo drasticamente l’ambito della riflessione.
La possibilità di una donna di offrirsi come madre al di fuori di una coppia tradizionale, indipendentemente dall’essere remunerata, è una forma di emancipazione o di degrado? Il corpo è una proprietà di cui disporre liberamente fino al commercio dello stesso o di sue parti? Liberare tale azione dall’aspetto economico la definirebbe diversamente? Sarebbe lo stesso se l’organo in affitto non fosse quello femminile? Va considerato allo stesso modo il caso di genitori che rifiutano il parto per i più svariati motivi e quello di una coppia sterile? La gestazione, così intima e prolungata nel tempo, non è necessariamente origine di complesse problematiche relazionali? Certo, non sono una donna e non posso saperlo per esperienza diretta, ma credo che il sentire una vita crescere dentro di sé sia difficilmente riconducibile a una forma contrattualizzabile di affitto di una parte di sé così come non è uniformabile l’esperienza della maternità. Alla luce di queste considerazioni diventa un complesso problema giuridico ed etico la normatizzazione della questione. Va anche sottolineato che l’etica del legislatore è figlia del suo contesto e non di una verità etica assiomatica e soprattutto rimane sospesa l’osservazione: fino a che punto è necessario l’intervento del legislatore? Quando una decisione rimane nell’ambito personale e non va a incidere sull’interesse collettivo non sarebbe opportuno consegnarla alla libertà e responsabilità individuale? Certo, nel caso di una maternità un essere umano viene generato per soddisfare la volontà di altri soggetti, a volte la mamma è una sola, a volte le cose si complicano, in taluni casi interviene un interesse economico in altri si tratta di disponibilità o affetto, chissà, forse in futuro si realizzeranno uteri artificiali, diverrà obsoleto il concepimento coitale e “naturale in quanto lecita e diffusa” la procreazione assistita a livello medico, specie se i donatori saranno i genitori naturali, superando il senso del dibattito sulla maternità surrogata, ma questo non risolverà la questione posta dal grande recanatese e nessuna legge, naturale o del diritto positivo, potrà essere considerata una risposta esaustiva.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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