“Troviamo di tutto nella nostra memoria: è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso.” estrapolo liberamente dal ben noto capolavoro di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. Al riguardo mi piace ricordare un’allegoria dell’amico Gershom Freeman che, mi sembra, rappresenti plasticamente non tanto la memoria, quanto l’azione del ricordare, tanto intimamente connessa alla prima che, nella citazione proustiana, si riconosce nel “mettere le mani a caso”. Gershom descrive la memoria come un vasto mare che ci abita nel quale, con tragica similitudine ecologica, confluiscono gli avvenimenti, consapevolmente e inconsapevolmente vissuti, come da innumerevoli corsi d’acqua che si confondono nel loro risiedere e costituire le acque marine. In perenne movimento in superficie, le onde, più statico nelle profondità, il mare della memoria si insala del nostro procedere esistenziale conservando e trasformando ogni avvenimento in ricordo possibile, droga calmante o veleno pericoloso dipende da come viene presentificato. Ecco lo sviluppo dell’allegoria: il ricordare è spesso come gettare una rete nel mare per poi estrarla e osservare il pescato; intanto non tutto ciò che è nell’acqua ne sortisce e molto di quello che sfugge alle maglie delle reti avrebbe potuto modificare la nostra “pesca mnestica”, ma, aspetto altrettanto significativo, l’osservazione delle prede si organizza nella forma delle maglie del mezzo utilizzato. Insomma, tra quanto è “caduto” nel fiume dell’accadere, ovviamente nel passato, e quello che osserviamo nella rete del “pescato presente”, diviene difficile affermare la possibilità di una sovrapposizione da “copia-incolla”. Più interessante, anche se molto più complesso, sarebbe comprendere l’anima del pescatore comparando costanti e variazioni, sempre che sia di fatto possibile.
Il tema della memoria, che tanto ha occupato il pensiero filosofico dalle origini greche a oggi, assume un particolare aspetto se collocato nelle possibilità di una rete altrettanto complessa di quella utilizzata nella sua allegoria dall’amico Gershom, mi riferisco, evidentemente, alla rete del web. La capillare diffusione e il sistematico impiego della “memoria artificiale” ha collettivizzato quella individuale sia inghiottendo e metabolizzando ogni “deposito” personale nel mare magnum della rete, sia garantendo alla pesca di ogni singolo l’accesso a banchi di pesci illimitati nel tempo, nello spazio e nelle coscienze. Paradossalmente, è proprio l’avvertimento della propria caducità e dell’effimero che abita il nostro tempo privato e ogni avvenimento che produce il tentativo di eternare, noi e il ricordo di noi, attraverso la partecipazione all’illimitato deposito permanente della rete, mentre ciò che effettivamente si ottiene è, per dirla con Gershom, “[…] il bisogno di durare diventando memoria nel web ti annichilisce in un presentismo fugace nel quale sei già uno degli infiniti ieri”. Se poi sviluppiamo una personale considerazione dell’allegoria gershomiana, ci rendiamo subito conto che la forma delle maglie della “rete virtuale” non ci rivela più nulla del pescatore, ma omogenizza il ricordo in una struttura universale che, ancor più definitivamente, porta all’estinzione esistenziale e intima del soggetto proprio nel momento in cui la sua auto gratificazione si innalza mentre osserva immagini di sé fluttuare tra le onde del web. Ancor più tragico è comprendere che la scelta della forma delle maglie non è nemmeno rinviabile alla volontà di un artigiano, ma è affidata all’anonima indeliberante competenza di un algoritmo.
Ricordare è un atto estremamente umano, una peculiarità della specie che ha prodotto meravigliosi progressi ma, soprattutto, ricordare è far accadere il presente, offrire la possibilità di essere, determinare il senso della percezione del qui e ora, generare occasioni di investimenti esistenziali proiettivi, insomma, organizzare la sede del futuro. Ma la componente umana del ricordo è nel sapore, nella sfumatura, nelle sonorità intime di ogni ricordo così che il prodotto mnestico diviene espressione e ragione della scala valoriale del soggetto che ricorda. Nella rete artificiale ogni “deposito” diviene perennemente ricordabile ma la memorabilità è la medesima per ognuno di essi, insomma, è possibile avere memoria di qualunque cosa ma ogni ricordo si caratterizza per la medesima possibilità e, se il soggetto fruitore non ha una struttura etica ben organizzata, ogni memoria, ogni informazione, ogni possibile idea si va a collocare sul medesimo piano oscillante della superficie del mare mnestico, senza possibilità di accedere a profondità che richiederebbero tempo e capacità morali. Mi sembra, mi rifaccio molto liberamente a Benjamin, che ci stiamo muovendo verso un tempo invaso da esperienze arrogantemente proposte come “fatti” rinunciando alle più profonde e qualificanti connessioni tra gli stessi e i soggetti che li vivono. Vorrei sottolineare che ci stiamo muovendo un passo prima del momento interpretativo, non sto affermando che “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, sto affermando che l’esistenza stessa del “fatto ancora da interpretare” è già rivisitazione dello stesso. La raccolta dei cosiddetti fatti è essa stessa un accadimento che ne condiziona la “oggettiva fattualità”; il mare della memoria non è la sede della “mente che non erra”, per dirla con le parole del Poeta, e oggi nel suo assolutizzarsi virtuale lo è ancora meno.
Se fino a trent’anni or sono i serbatoi documentali andavano ricercati negli archivi, nelle biblioteche, tra le registrazioni dei media, oggi le fonti sono estremamente diversificate e facilmente accessibili da ogni apparecchio informatico. Questo sembrerebbe garantire la pluralità dell’informazione, il superamento della facile egemonia di un certo tipo di potere, chiamiamolo classico o istituzionale, nel controllo dell’informazione, ma nasconde anche un pericolo, quello di mettere sullo stesso piano chiacchiera e informazione. La memoria informatica praticamente non ha limiti ma, nella sua infinita estensione, tende a minimizzare e omogenizzare ogni ricordo, è uno dei volti della democrazia? Certo è un’opportunità, ma quanto è difficile utilizzarla positivamente. Credo sia importante ribadire che la memoria è anche risposta alle domande ma è altrettanto importante considerare chi e come rivolge la domanda e su cosa. A ogni interrogazione si genera una reazione che è narrativa, il ricordo presentificato non può che essere narrato ma, nel suo essere narrato, diviene rivisitazione. Nella rete ognuno è fruitore di messaggi ma anche creatore degli stessi, la questione del controllo circa la fondatezza e la qualità delle fonti è spesso sacrificata sull’altare della libertà di parola e di pensiero, l’unico vero “garante” è oramai solo il numero, ma in questa “spirale logica” è possibile dare vita a una sorta di “memoria collettiva” che si auto conferma grazie alla quantità di chi la invera accedendovi. Il paradosso solidifica sé stesso nel momento in cui, come storicamente verificabile, la memoria collettiva condiziona quella del singolo soggetto il quale, accedendo confermativamente a quella collettiva, la corrobora e rassicura se stesso e l’intera comunità che, replicando oralmente le tre righe appena intercettate nella rete, raccoglie assensi numerosi dei figli del medesimo algoritmo. Possiamo, a questo punto, ricordare un antico proverbio cinese che risale all’epoca “pre web” ma, e sarebbe interessante una puntuale riflessione su questo elemento, perfettamente la rappresenta: “Quando un solo cane si mette ad abbaiare a un’ombra, diecimila cani ne fanno una realtà”.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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