Israele/Alassio. Mentre con il passare delle ore il territorio Israeliano si sta trasformando sempre di più in un inferno a cielo aperto, prendiamo il telefono e chiamiamo Piera Olivieri, ex responsabile dell’ufficio turismo nei Comuni di Alassio e Albenga ed ex assessore provinciale.
Olivieri è partita per un viaggio organizzato in Terra Santa lunedì 2 ottobre. Insieme a lei c’erano il parrocco di Alassio Don Corini e il vicario Don Bruno. Il programma delle pellegrinaggio prevedeva una serie di tappe iconiche, come la visita a Betlemme e la gita in barca sul lago di Tiberiade: “Sono state giornate belle ed emozionanti – racconta Olivieri a IVG -, almeno sino a sabato sera. In quel momento ci trovavamo a Gerusalemme, dal Santo Sepolcro. Ci sono state le sirene, ma dove eravamo noi non si sono sentite”.
La notizia dell’attacco di Hamas si è diffusa velocemente e le agenzie di stampa di tutto il mondo hanno iniziato a diffondere la drammatica evoluzione della situazione: “Dall’Italia mi sono arrivati i messaggi di tantissime persone preoccupate – ricorda -. Subito non capivamo, così abbiamo provato ad informarci tramite i canali della CNN. La situazione da noi era apparentemente tranquilla e così ho scritto a tutti di non allarmarsi”.

Come molte strutture del territorio, l’albergo che ospitava Olivieri e la delegazione della Diocesi alassina era provvisto di un bunker da utilizzare in caso di allarmi. Un bunker che, fortunatamente, non è stato sfruttato dal gruppo alassino, anche perché il giorno dopo (la domenica) le visite sul territorio sono proseguite quasi come da programma: “Domenica è stata una giornata paradossalmente tranquilla – spiega -. Abbiamo eliminato la gita turistica sul Giordano, sul Mar Morto e a Jericho, ma abbiamo girato per Gerusalemme visitando il Patriarcato e anche un museo”.
Una tranquillità incredibile se si pensa che in quelle stesse ore da Gaza stavano partendo piogge di missili e proiettili (via aria, terra e mare) diretti nel sud di Israele. È domenica 8 ottobre e il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu non usa mezzi termini: “Siamo in guerra”. Eppure la parola più utilizzata da Olivieri per descrivere quella domenica è proprio quella che non ti aspetti: “tranquilla”. Come se, per poche ore, il gruppo alassino avesse vissuto gli ultimi attimi di quel pellegrinaggio in una bolla di pace pronta a scoppiare.

Arriviamo così a ieri, lunedì 9 ottobre. La giornata più tragica, che segna il passaggio dagli attimi di fede e commozione a quelli di paura e terrore: “Avevamo il volo confermato alle 17.30 dall’aeroporto di Tel Aviv-Ben Gurion – dice Olivieri -. La paura era quella di non riuscire a decollare, ma ci avevano detto di stare tranquilli”.
“Tranquilli”. Questa parola in questa storia torna in continuazione, ma ad un certo punto si scontra con la realtà: “Eravamo a Emmaus e stavamo assistendo alla celebrazione della messa. È stato lì che abbiamo sentito gli aerei andare avanti e indietro”. Poi, un suono inconfondibile: “Abbiamo sentito nitidamente due missili e lì ci siamo spaventati. Siamo saliti sul pullman e siamo andati a mangiare. Eravamo agitati”.
All’aeroporto di Tel Aviv, nel frattempo, è il caos più totale. Milioni di persone affollano la struttura. In mezzo c’è di tutto: c’è chi ha un volo prenotato, ma c’è soprattutto chi vuole scappare via da lì al più presto, e in ogni modo: “Lì ho percepito una tensione altissima- prosegue Olivieri -. Ad un certo punto dall’esterno si è sentito il rumore di un tuono e ho visto con i miei occhi la gente terrorizzata buttarsi sotto ai tavoli. Era un tuono, ma in quel momento poteva cadere anche una penna per terra e il risultato non sarebbe cambiato. Ho visto i bambini impauriti che piangevano. Lì, in quel momento, ho sentito la guerra”.

Olivieri e il gruppo della Diocesi alassina riescono ad imbarcarsi con un ritardo di quasi 5 ore. Alle 21.10 circa il volo della compagnia aerea israeliana El AI (una delle poche autorizzate a decollare in quel momento) spicca il volo. La rotta, però, non può essere quella seguita solitamente dai piloti: “Abbiamo dovuto evitare di passare sopra la striscia di Gaza – aggiunge -. Ci siamo diretti verso la Grecia, poi a Venezia e infine siamo arrivati a Milano all’una di questa notte”.
La stanchezza è tanta, ma il peggio ormai è alle spalle. Ma dopo la commozione per il pellegrinaggio vissuto nei giorni tranquilli, dopo le paure vissute in aeroporto, c’è ancora spazio per un ultimo sentimento: la rabbia. “È paradossale che la cosa peggiore mi sia successa concretamente nel nostro Paese – afferma Olivieri -. Siamo atterrati intorno all’una, ma le valigie le abbiamo ritirate solo alle 2 e 40. Nel frattempo, pur conoscendo la provenienza del nostro volo, dallo scalo milanese, in quel momento completamente vuoto, nessuno si è fatto vivo per chiederci anche solo come stavamo. Niente di niente”.

Ma il peggio doveva ancora arrivare: “Il nostro volo aveva accumulato un enorme ritardo ovviamente – conclude – e per la sosta del nostro autobus è stato chiesto al nostro autista di pagare 500 euro. Cinquecento euro. Tutto per aver tardato 15 minuti. Abbiamo provato a parlare con il personale presente e gli abbiamo raccontato tutta la nostra storia. Quei 500 euro alla fine li hanno voluti per davvero. Questa è una cosa vergognosa, la Farnesina forse non si rende conto di quello che succede qui da noi. Ora il mio pensiero va a tutta quella povera gente che rimarrà lì. Sarà un disastro anche per il turismo, molti vivono solo di quello”.