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Per un pensiero altro

Una goccia che sale

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

pensiero altro 21 giugno 2023

“Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso nel letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, si ode ad intermittenza.
Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità, e alla fine fanno un piccolo schiocco, ben noto in tutto il mondo. Questa no”. Si tratta dell’incipit di un brevissimo testo di Dino Buzzati per la prima volta comparso nel Corriere della sera il 24 gennaio 1945 e successivamente nella raccolta “Sessanta racconti” curata dall’autore ed editata nel 1958. Inevitabilmente il lessico rivela le sue radici temporali così come alcune descrizioni che allora erano assolutamente accettabili mentre, se scritte oggi, rischierebbero severissime critiche all’insegna del “politicamente corretto”. Per chiarire cito un passo emblematico: “Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnalarla. Bensì una servetta del primo piano, squallida piccola ignorante creatura”. Non è un aspetto che mi interessi e troverei di cattivo gusto soffermarci sul contingente, raccolgo la lezione montaliana, perdendo di vista l’essenziale, così come non intendo seguire le tracce di Croce, che tanto bene e tanto male hanno lasciato alla critica letteraria nazionale, separando la poesia dalla non poesia. Bene, sgombrato il campo, soffermiamoci sulla genialità meta temporale dello scritto buzzatiano. Il testo, due paginette di fatto, racconta di una goccia che sale le scale, “si innalza lungo la tromba delle scale lettera E dello sterminato casamento”, il suo incedere è prima avvertito dalla “servetta ignorante” e poi, in seguito alla sua spaventata comunicazione, anche dalla “padrona” così che il narratore omodiegetico può sentenziare: “Una goccia saliva le scale, positivamente”. La padrona, quindi non l’ignorante servetta capace solo di spaventarsi e chiedere conforto e asilo, la padrona, che leggiamo nel suo segno non sociale ma antropologico, si pone razionalmente di fronte all’inattesa scoperta. “Gelosa dell’ordine, per un istante la signora pensò di uscire a vedere. Ma che cosa mai avrebbe potuto trovare alla miserabile luce delle lampadine oscurate, pendule dalla ringhiera? Come rintracciare una goccia in piena notte, con quel freddo, lungo le rampe tenebrose?”. “La padrona” infine, non riesce a fare nulla di più della “servetta” e lo stesso occorre a tutti gli inquilini “dell’immenso caseggiato”.

Mi sembra evidente che servette, padrone e inquilini tutti, stiano a ricordare la varia umanità che abita nell’immenso caseggiato “pianeta terra” e c’è qualcosa che accomuna gli abitanti del caseggiato-pianeta, la paura della goccia che sale le scale, dell’assurdo che viola le sacre leggi della fisica, quel Tic Tic, per riprendere l’onomatopea di Buzzati, che non sanno spiegare, che vorrebbero poter non sentire ma che nel buio e nel silenzio li avverte della propria presenza anche se “Al mattino del resto chi prende più questa storia sul serio? Al sole del mattino l’uomo e’ forte, è un leone, anche se poche ore prima sbigottiva”. Già, nel caos di suoni e impegni e nevrosi e doveri che invadono il quotidiano tutto torna normale, magari faticoso, a volte addirittura doloroso, ma sempre comprensibile, sempre ordinabile, e allora non fa più paura, almeno, non quella paura che è generata dal mistero. Ecco la parola chiave, non è un caso se il racconto verrà riproposto nella raccolta buzzatiana “La boutique del mistero”. Ogni essere umano ha bisogno stabilità, non so se per sua natura o per formazione culturale, troppo tempo è trascorso per risalire all’uomo “della prima volta”, non mi cimento dove ha già fallito Rousseau, accetto il fatto che l’uomo che siamo abbia bisogno di schemi, di semplificazioni rassicuranti, di giustificazioni razionali che gli consentano l’inganno del controllo sulle cose e su se stesso. Credo sia evidente quanto sia necessario comprendere e sottolineare la differenza fra problema e mistero; forse ha ragione Fromm, “L’uomo è l’unico animale la cui esistenza è un problema che deve risolvere”, ma l’uomo non è un problema a se stesso, è un mistero a se stesso e il mistero non lo si risolve, lo si abita. Razionalizzando il mistero lo perdiamo precludendoci la possibilità di viverlo, per essere espliciti, è come razionalizzare l’amore, se ci riesci non è più amore, se lo accetti può essere pericoloso ma anche meraviglioso.

Certo, può fare paura, eppure come posso sapere di essere coraggioso se non vincendo la paura? Ma, come ci insegna Nietzsche nello Zarathustra, “L’uomo è l’animale più coraggioso: così superò ogni animale. […] Il coraggio ammazza anche le vertigini sull’orlo degli abissi: e quando mai l’uomo non pencola sull’orlo degli abissi?”. Siamo mistero a noi stessi, l’abisso che ci abita è comprensibile che ci spaventi ma non è certo negandolo che potremo affrontare “l’ondivago vagabondare, il perenne darsi e celarsi che è la nostra vita in compagnia di noi stessi”. La voce dell’abisso, quando siamo soli e abitiamo il silenzio, possiamo sentirla mentre assurdamente, com’è dell’altrove, sale le scale; se siamo abbastanza coraggiosi possiamo ascoltarla, altrimenti siamo dotati di mille strumenti per non darle voce. Sarà sufficiente accendere la televisione, la radio, il cellulare, il computer o qualsiasi altro strumento di distrazione privata e collettiva, sarà sufficiente negare la possibilità di ciò che non è logico, razionale, spiegabile con gli spuntati attrezzi del pensiero (spuntati per il genere ovviamente), sarà sufficiente comportarsi come chi sceglie di guardare un film splatter per poi anestetizzarne gli effetti rassicurandosi che tanto è solo finzione, che il sangue non è vero e che la vittima è un attore che in verità gode di ottima salute, che senso ha vivere e viversi solo “un po’”? Meglio di nuovo raccogliere il protrettico nietzscheano: “Era questa la vita? Orsù! Di nuovo!”

Ma silenzio e solitudine sono divenuti sinonimi di malinconia, che triste mistificazione, utile solo a fornire sterili giustificazioni alla propria inettitudine, il fine è non avvertire il Tic Tic della goccia che sale le scale, perché ignota e inspiegabile e ciò che non conosciamo ci spaventa, è quanto ancora non abbiamo organizzato all’interno dei nostri schemi utili alla pre-comprensione che è sempre figlia di un pregiudizio. Conoscere, secondo questi paradigmi, diviene rinuncia, rinuncia aprioristica alla possibilità di incontrare il mistero, di lasciarsi guardare negli occhi dall’abisso che siamo, in una parola, negarci. Forse l’anticipazione, se non addirittura il coglimento di una cifra costante della “normalità umana”, offertaci dalle prose e dai dipinti del grande bellunese, è il continuo affinare strumenti di fuga nei confronti del terrore e della meraviglia che suscita il mistero dell’uomo se incontrato dall’uomo. Oggi la strategia più efficace sembra essere quella dell’eccesso comunicativo, il mezzo col quale annegare l’attenzione selettiva e profonda che sa porsi in ascolto. Il plurale e assolutamente non pluralistico vociare del mercato virtuale, dell’equipollenza di ogni messaggio, sa forse ancora fornire l’illusione della libertà, della capacità di ognuno di cimentarsi, improvvisandosi come dilettante autodidatta, nella ricerca di un ordine che necessariamente deve esistere nel caos. La persona comune, saggia, gli “adulti, raffinati, sensibilissimi” la riconosciamo nella chiusa buzzatiana quando l’autore riporta gli interrogativi degli inquilini del caseggiato: “Ma che cosa sarebbe poi questa goccia: – domandano con esasperante buona fede – un topo forse? Un rospetto uscito dalle cantine? No davvero. E allora – insistono – sarebbe per caso un’allegoria? Si vorrebbe per così dire, simboleggiare la morte? o qualche pericolo? o gli anni che passano? Niente affatto, signori: è semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale. […] trattasi proprio di una goccia d’acqua, a quanto è dato presumere, che di notte viene su per le scale. Tic tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura”.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli

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