“C’è un momento che devi decidere: o sei la principessa che aspetta di essere salvata o sei la guerriera che si salva da sé… Io credo di aver già scelto… Mi sono salvata da sola”, così afferma Norma Jeane Mortenson Baker meglio conosciuta come Marylin Monroe che, come è noto, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962 incontrò la morte in situazioni non del tutto chiare se quello che fu presentato come un suicidio viene descritto in diversi documenti come un omicidio. Non ci occupiamo in questa sede della pur intrigante vicenda, già troppo se ne è scritto, ci interroghiamo piuttosto sul senso delle parole dell’attrice: perché mai una donna dovrebbe essere salvata da un Principe o divenire una guerriera in grado di salvarsi da sé? Il senso implicito nella prima parte della frase è evidente, si tratta della denuncia di uno stereotipo tanto caro alle fiabe che affondano le loro radici nel Medioevo ed esprimono un’idea di donna come soggetto fragile che necessita di protezione, come essere che può e deve ambire a divenire compagna di un Principe o, comunque, di una figura maschile che la collochi in un ruolo alla propria ombra, magari come delicata creatura angelicata alla quale il maschio consacra se stesso determinandola come mezzo funzionale alla propria redenzione, insomma, mai come un ente autonomo degno di diritti, rispetto e dignità se non come riflesso di quanto riconosciuto al suo compagno. Nella seconda parte si prospetta la figura di una donna che è capace di non dipendere da altri ma che, e questo è terribile, deve comunque “salvarsi”.
Nelle fiabe il Principe è costretto a cimentarsi nella sfida con il drago che, per le più svariate e malcerte ragioni, tiene prigioniera la Principessa, è evidente che il tutto rappresenta un rito iniziatico nel quale il maschile si misura con le paure collettive esorcizzandole e il ruolo del femminile è apparentemente centrale ma di fatto solo funzionale. Oggi le cose sono molto cambiate, sono scomparsi i riti di passaggio e il maschile troppo spesso ha paura del femminile, si sente valutato, la sfida è essere all’altezza delle aspettative della donna che, peraltro, è sempre in lotta per vedersi riconosciuti i medesimi diritti dell’uomo; è forse pleonastico ma preciso: non mi riferisco necessariamente ad aspetti sindacali o simili, l’affermazione ha una natura più sociologica e antropologica. Mi sembra utile riportare una citazione da “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir: “Nessuno, di fronte alle donne, è più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità” che ci immette nel cuore del nostro argomentare intorno a una serie di avvenimenti di tragica attualità: ha senso parlare di delitto passionale? La passione è amore o possesso? L’odio è una passione? Ma non intendo parlare dell’attualità criminale che si manifesta nel fenomeno del femminicidio piuttosto riflettere intorno alla dicotomia tra passione e sentimento accostandola alla dualità natura e cultura; un po’ schematicamente potremmo affermare che per passione va inteso un aspetto naturale, istintivo, scarsamente condizionabile mentre nel sentimento predomina la componente culturale, l’educazione, la ragione. Nella dicotomia si potrebbe riconoscere il dualismo cartesiano che incontrerebbe la sua ghiandola pineale nell’amore, una sorta di simbiosi più o meno equilibrata fra i due aspetti. Forse è pleonastico ma sottolineo che, come in ogni semplificazione e in ogni schematizzazione, molti sono i margini di variabilità.
Secondo gli studi del neurologo portoghese Antonio Damasio “le emozioni e i sentimenti possono causare il caos nei processi di ragionamento [ma] l’assenza di emozioni e sentimenti non è meno dannosa”. Credo che troppo spesso si definisca passione, con le implicite conseguenze di incontrollabilità della stessa, un sentimento immaturo ed egoista. Non penso che il feroce bisogno di controllo, la volontà di proiettare le proprie esigenze e aspettative sull’altro, la pervicace determinazione alla manipolazione anche solo verbale possano essere definite passione; fin troppo evidente è la profonda natura razionale di simili atteggiamenti. Forse le antiche radici possono essere individuate in archetipi naturali del soggetto, ma un’enorme apparato sovrastrutturale ne direziona le manifestazioni nelle quali è lampante quanto sia indispensabile la volontà dello stesso nel determinare le proprie azioni apparentemente del tutto conseguenti. La violenza ha mille facce, magari non lascia tracce fisiche, ma cicatrici più profonde e non è certo di genere, anzi, quanto spesso proprio chi è più debole fisicamente vi ricorre. Il maschio, generalmente, soprattutto negli ultimi decenni, più elementare e fisico della donna, si risolve nel gesto violento e, tornando a Simone de Beauvoir, tanto più si riconosce nelle proprie erezioni e nel successo che dovrebbero generare, tanto più corre il rischio di essere terrorizzato dalla propria inadeguatezza e diviene violento. È certamente un problema la fisicizzazione di ogni emozione che la trasforma in una sessualità ostentata e caduca, che brucia le tappe emotive confondendo emozione con eccitazione. Nulla contro le gioie del sesso, ho sempre apprezzato la teoria di Wilhelm Reicht sulla funzione benefica dell’orgasmo, ma questo non giustifica la banalizzazione della sessualità che si consuma a ogni livello.
La perversa equazione che mette in reciproca relazione fino all’identità il concetto di passione a quello di possesso, è implicita nella logica più ampia che ha come interprete e fondatore un “simulacro signore del nostro tempo”, il denaro. Non si tratta più di istinto, la promiscuità tra natura e cultura diviene simbiotica, nell’attuale mediocre omologazione esistenziale ogni ente, che sia umano o meno, diviene quantificabile, non importa di cosa si tratti ma di quanto costi. Ecco che il “soggetto d’amore” si riduce a “oggetto di desiderio”, l’uomo comune riconosce sé e l’altro in misura di ciò che possiedono, ecco che lei, Principessa o guerriera non ha più importanza, è solo ciò che voglio e mi rende felice, non le si riconoscere più di essere in sé ma solo come componente della propria esistenza. Certo, potrebbe essere d’aiuto “una sana educazione al sentimento”, ma non risolverebbe il problema se anche l’istinto è malato di sistema. Mi sembra evidente un “rovesciamento dei rapporti di predicazione”, la presunta fragilità del femminile è tale solo nell’ottica distorta di un “maschile incapace di essere uomo”. È vero, è complesso per i ragazzi di oggi sapere quando sono diventati adulti, non vivono il passaggio del ciclo mestruale, non conoscono riti che ne indichino l’accesso al mondo dei grandi, la meccanica erettile, identica in rapporti variamente direzionati, non risolve il problema. Ma è proprio nel disordine che si riconosce l’identità. Ti puoi incontrare solo se capisci che non sei i tuoi genitali e che fuori di te non hai che riflessi. È in quel momento che puoi sapere che uomo sei, quando capisci di essere la solidità dell’anello di congiunzione tra passione e sentimento, quando la parola amore si riempie di contenuti come rispetto, accettazione, generosità, garanzia che mai e poi mai potresti fare del male a chi affermi di amare.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli