“Sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.” Come non riconoscere le parole di Italo Svevo, al secolo Aron Hector Schmitz, tratte dal celebre romanzo “La coscienza di Zeno”? L’ipocondria di Zeno Cosini, il protagonista del testo e alter ego dell’autore, si presenta nella sua veste ambigua di malattia dell’anima e patologia del corpo, un tipico caso di somatizzazione che si presta a una interessante riflessione: non siamo forse un po’ tutti malati ma certe malattie sono tanto condivise in un determinato lasso spazio temporale che, nello stesso, non vengono reputate tali? Interessante, a questo proposito, la considerazione di un altro gigante della letteratura mondiale, Fedor Michajlovic Dostoevskij: “Tutti noi, e molto spesso, siamo quasi uguali ai matti, ma c’è una piccola differenza: i “malati” sono un po’ più matti di noi, perciò qui bisogna tracciare una linea di confine. Ma di persone perfettamente equilibrate, in verità, non ce n’è quasi nessuna; su varie decine e forse anche su molte centinaia di migliaia se ne trova una, e, per di più, questi esemplari non provano granché”. Il problema di definire il concetto di malattia ha attraversato la storia del pensiero dall’insorgere del tentativo di intervento da parte dell’uomo su una condizione di anomalia, di sofferenza, di disagio; il punto di partenza penso sia individuabile nel considerare un certo “effetto” come sintomo di “condizione patologica” per curare la quale è necessario risalire alla causa: La questione rimane: come avere la certezza che il sintomo segnali la presenza di una malattia? E resta il sottotesto heideggeriano recuperato da Basaglia: se l’uomo è un “essere nel mondo” la cura può essere l’isolamento? Ma torniamo al tema.
Molto semplicisticamente fino agli ultimi decenni del XIX secolo lo stato di malattia veniva definito come una sorta di “guasto della macchina biologica” e lo si determinava secondo un approccio positivista che veniva indicato come “paradigma anatomo-patologico”, il pensiero comune ancora oggi non è molto distante da questa concezione ma va sottolineato che le categorie di funzionalità e normalità non sono univocamente individuabili e si prestano a posizioni dogmatiche spacciate per oggettive e figlie di un modello che è più culturale che biologico. Un dato che, mi sembra, possa essere condiviso è che non esistono esseri umani identici, l’uomo è portatore della propria storia individuale e sociale tanto da differenziarsi anche a livello biologico in maniera rilevante, si pensi alle capacità immunitarie di ogni singolo, alle abitudini alimentari, occupazionali, relazionali che determinano differenze considerevoli le quali non consentono una omogenizzazione nelle diagnosi e ancor meno nella cura. Certo, se fossimo identici la medicina avrebbe maggior possibilità di successo e (forse) la ricerca è rivolta più alla cura di un ipotetico modello che non del caso particolare. Si pone la questione dell’idea standardizzata di corpo ma ancora più complesso diviene il discorso se la malattia è espressione di scelte e comportamenti individuali: quale atteggiamento è definibile anormale? Un rapper che mima un atto sessuale sodomita in pubblico è normale per un pubblico avvezzo a quel codice, è sconcertante per la mia vicina ottantenne, è semplicemente noioso sicuramente per me e, credo, per la maggioranza del popolo italiano.
Il problema di Zeno non era il danno che il fumo provocava alla sua salute ma la sua incapacità di volere con sufficiente intensità, nello specifico di smettere il vizio, nel complesso era quella malattia che si chiama inettitudine, ed eccolo osservare chi, più adatto di lui al suo tempo, aveva successo. Già, è questo il problema, essere performante, infatti il tragitto logico troppo condiviso si può così sintetizzare: se raggiungi il successo è perché sei bravo, va da sé che si nega implicitamente il percorso rovesciato, ciò che conta è essere capace poiché già questo è il successo, dal che consegue che se non ci riesci è perché non lo meriti. Non è un caso che Svevo abbia ottenuto la fama letteraria poco prima di morire e solo grazie a due geni, Joyce e Montale, per il grande pubblico era uno sconosciuto e, credo, tornerà a esserlo visto il livello della cosiddetta letteratura contemporanea e dei relativi fruitori. Per ricorrere alle parole di Krishnamurti: “Non è segno di salute mentale essere ben adattati a una società profondamente malata”. Rivelatrice la dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che afferma: “La malattia equivale a un’alterazione della normalità e corrisponde a una perdita transitoria o permanente della omeostasi (perdita dell’equilibrio funzionale, alterazione delle condizioni interne ed esterne)”. Già grandi pensatori come Heidegger, Gadamer e Habermas si sono occupati, nel quadro della filosofia ermeneutica, del tema della malattia spostando il piano della riflessione da un approccio riduttivistico di natura biologica a un più ampio contesto che analizza l’intera vicenda esistenziale del singolo soggetto; grazie a loro sembra evidente che divenga fondamentale definire il concetto di normalità per poi comprendere il significato di quello antitetico: malattia. Normalità è conformità con la maggioranza, delega a un pensiero senza soggetto, adeguatezza depensata al contesto, omogeneità comportamentale con modelli predeterminati, insomma, quello che Pasolini definiva “la volgarità del conformismo”, senza dimenticare l’ammonizione di Zygmunt Bauman: “L’uniformità nutre il conformismo e l’altra faccia del conformismo è l’intolleranza”.
In quest’ottica la malattia diviene perversione nel suo senso etimologico di devianza, di anomalia nei confronti dell’ortodossia, ma tale prospettiva sposta la lente verso il sistema che determina il “pensiero comune e l’adeguato comportamento conseguente”. Affermava causticamente l’amico Hermann Hesse: “In natura non esiste nulla di così perfido, selvaggio e crudele come la gente normale”, per dirla ancor più esplicitamente, la gente “normale” è malata, gravemente malata, allora alziamo peana al cielo in onore dell’anormalità, ma con un’importante interrogazione: com’è possibile essere tanto calati nel non pensiero a questo proposito che lo stesso comportamento, se consumato da un viaggiatore sconosciuto su un mezzo pubblico o dal vicino del piano di sopra, ci inorridisce: “Ma che perversione, che squallido personaggio!”, mentre se è platealmente esibito da un sedicente artista diviene infrazione libertaria e iconoclasta? A parte che molto spesso sarebbe indispensabile spiegare il significato del termine allo stesso artista e che l’auto definizione di artista che si assegnano tra loro troppi personaggi dello show busines è ampiamente emendabile, è opportuno chiedersi: è malato chi non riesce nemmeno a portare a termine la lettura di un pezzo breve come questo o chi lo scrive con la speranza di suscitare “un pensiero altro”? Tornando al buon Svevo camuffato da Zeno: l’autore protagonista, capace a un auto ironico sorriso critico, si sapeva inadeguato al mondo circostante, o meglio, sapeva di essere in grado di adeguarvisi ma al prezzo eccessivo di rinunciare alla propria natura più profonda che, se esplicitata, lo avrebbe reso un “malato”. Insomma, rovescia i termini del concetto, nel momento in cui potrebbe essere considerato sano, quando si dedicava con profitto all’attività imprenditoriale, si sapeva malato e non si divertiva; se si accettava e si palesava nella sua più intima bellezza risultava ai più inadeguato, eterodosso… malato. Meravigliosa malattia che lo rendeva inetto a un mondo decadente ma capace di uno “sguardo altro” che è l’unico vero scandalo, quello dell’arte.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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