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Per un pensiero altro

La notte hegeliana

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

pensiero altro 15 febbraio 2023

“Quando una lingua muore, un modo di intendere il mondo, un modo di guardare il mondo muore insieme ad essa”, è quanto afferma nel 1944 George Steiner, scrittore e saggista nato a Parigi in una famiglia ebraica di origine austriaca e naturalizzato statunitense. Gli fa eco molto più recentemente la scrittrice islandese Auður Ava Ólafsdóttir affermando che “Oggi ci sono circa 3.500 – 7000 lingue ma il 40% di queste sparirà nei prossimi 10 anni. Ogni mese sulla Terra muoiono due lingue e per ogni lingua che muore l’intera umanità perde una cultura e un modo di vedere e pensare il mondo”. Il senso profondo dell’avvertimento che accomuna i due pensieri è che la parola è viva, mutevole e diveniente, deve essere pensata, detta e interpretata che altrimenti agonizza e scompare. Non sono assolutamente d’accordo con il filosofo Silvain Bromberger quando, riferendosi alle parole, si chiede: “Se sono entità astratte come possono cambiare?” La parola assume continuamente diversi significati, sapori, colori, a seconda di chi la pensa, di come la impiega, di quanto la intride di sé. Mi sembra evidente che la questione non riguardi una cerchia elitaria di intellettuali ma sia fondamentale per la vita quotidiana di ognuno, anche se è ancora un filosofo che può esserci faro in questo navigare, mi riferisco a Heidegger e al suo pensiero successivo alla Kehre (svolta) che lo porterà ad affermare che “solo dov’è il linguaggio vi è mondo”.

Lasciamo a margine della nostra riflessione il problema del filosofo tedesco, quello che affronta nella Lettera sull’Umanismo e che riguarda la sua urgenza di superare la prigione del linguaggio della metafisica tradizionale, e cogliamo quanto ci è più utile per comprendere il nostro quotidiano. Bisogna prendere atto che il linguaggio è poesia nel senso dell’origine etimologica del termine. Poiesis, infatti, è la parola che “disvela”, che porta alla luce, che non si limita a un’azione dichiarativa e assertiva ma assolve a un compito ben più rilevante, a un ruolo generativo, produttivo, creativo, in sintesi, poetico. Può sembrare complesso eppure è quanto ognuno di noi fa quotidianamente, provo a esplicitare. Avete mai provato a pensare in una lingua che conoscete poco? Ebbene, il vostro pensiero sarà estremamente elementare e banale, il mondo che saprete cogliere in quel codice sarà equivalente allo strumento che state utilizzando; man mano che acquisirete padronanza dello strumento ecco che vi si aprirà un mondo, non solo il mondo, ma il mondo prodotto e colto dalla cultura che ha espresso il linguaggio che andate acquisendo. Lo stesso evento, che sia un film, un libro, una storia d’amore o un viaggio, diviene sulla scorta di come riusciamo a raccontarcelo vivendolo, certo non sarà mai lo stesso per un bambino, un adulto, un poeta, un superficiale, un edonista, un distratto poiché ognuno di loro avrà costruito, nel tempo, un codice del rappresentare in parola adeguato a sé e al proprio tempo privato e sociale.

Ogni volta che impieghiamo una parola questa si plasma sul raccontato definendo il narratore e determinandone le possibilità di attribuzione di valore al linguaggio stesso. Mi sembra molto efficace lo stesso Heidegger nel saggio “Il linguaggio” quando afferma che il nominare da parte del soggetto è una sorta di chiamata, un modo per avvicinare il mondo a sé comprendendone la distanza: “Il chiamare è un invitare. È l’invito alle cose a essere veramente tali per gli uomini. […] La poesia nominando le cose, le chiama in tale loro essenza”. Tanto più siamo in grado di comprendere la nostra natura poietica tanto maggiore sarà la nostra opportunità di dare alla luce il mondo per noi definendo noi stessi. La questione è complessa e ho cercato di semplificarla e renderla chiara spero senza banalizzarla, ma a questo punto, poiché è palese la natura storica, sociale, privata e interpersonale del linguaggio, mi sembra estremamente attuale interrogarci su quanto il cambiamento dello stesso, decisamente darwiniano, si sia accelerato nel corso degli ultimi decenni. Limitiamoci al solo linguaggio inteso come parola, (altrettanto interessante sarebbe riflettere su quello non verbale ma non sarebbe possibile in così breve spazio) e alla sua rilevanza nella vita contemporanea. È importante premettere che il numero di chi legge si va riducendo, almeno proporzionalmente, per non parlare del come e del cosa è oggetto di lettura. La comunicazione scritta, oramai, deve essere breve e semplice, così esige il “nuovo pseudo lettore”, il rischio è di generare pensieri incapaci a una applicazione profonda, prolungata e soprattutto complessa e, di conseguenza, ne nasceranno fruitori degli stessi adeguati al messaggio che si è adeguato a loro: una spirale demoniaca. Si registra, e non a caso, una percentuale di analfabetismo di ritorno che definirei preoccupante. In Italia l’analfabetismo di ritorno sommato a quello funzionale (difficoltà grave nella lettura, scrittura, calcolo) arriva a quota 47%.

Scrive il Sociologo Franco Ferrarotti: “Sta crescendo l’analfabetismo degli alfabetizzati, la grande, irresistibile, a quanto sembra, ondata degli analfabeti di ritorno e degli aficionados di Internet, degli idiots savants che sanno tutto, che sono informati in tempo reale di tutto, ma non capiscono niente, fagocitati dalla stessa ricchezza dei dati non assimilati né assimilabili, storditi dalla rapidità medusizzante delle immagini”. Il fenomeno denunciato da Ferrarotti si traduce in effetti facilmente verificabili: una crescente povertà lessicale, codici elementari impiegati anche nel vano tentativo di affrontare adeguatamente questioni complesse, difficoltà anche nel semplice riportare eventi o raccontare film, ancor più compromessa la capacità di analisi, di concentrazione protratta nel tempo. Se, come affermavo, il linguaggio si evolve darwinianamente, ciò che sopravvive non è il migliore ma il più adatto, ma la parola è poietica, come dicevo, e il suo adattarsi è contemporaneamente un produrre, però, se la realtà è banalizzata, ecco che il linguaggio, evolutivo e camaleontico, si adegua trasformando il proprietario dello stesso. Siamo abitati dal nostro linguaggio e diveniamo al suo abitaci, se la parola è atto creativo e tutto diviene effimero e convenzionale la creazione stessa sarà provvisoria e claudicante determinando la zoppia del produttore che, quando la vita dovesse chiamarlo alla corsa, non sarebbe in grado di tenere il passo. Oggi tutto deve risolversi senza complicazioni, ma la semplificazione sta generando una tragedia, l’annichilirsi del senso e della ricerca di senso. Ogni concetto diviene un guscio vuoto. Come distinguere la rilevanza di termini come pace, solidarietà, libertà, amore se privati della loro più intima pluridimensionalità prodotta da chi li pensa? Se nulla è più illuminato dall’intelligenza del soggetto che lo crea nomandolo eccoci sprofondati nella notte nella quale tutte le vacche sono nere.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli

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