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Per un pensiero altro

Apofenia e apofrenia

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

Generico gennaio 2023

“Il cervello crea un mondo virtuale che è in noi ed è quello in cui viviamo” come afferma il prof Egidio D’Angelo (Università di Pavia, membro della direzione scientifica del Brain Connectivity Sciences) nel suo intervento al meeting di Rimini del 2019 sulla questione del rapporto tra cervello e coscienza. L’affermazione dello scienziato ricorda molto da vicino il fondamento della filosofia schopenhaueriana: “Il mondo è una mia rappresentazione”. L’approccio cosiddetto irrazionalistico dell’innovativa posizione del filosofo di Danzica contrastava col dominante pensiero hegeliano, anche se potremmo riconoscerne le radici già nella grande e ancora troppo poco considerata stagione della sofistica greca, e non riscosse facili consensi fra i contemporanei, ma oggi, espressa da eminenti neuroscienziati, ecco che diviene una verità condivisibile da tutti. Certo, non bisogna esagerare, come ammonisce lo stesso D’Angelo, che altrimenti si scivola sull’oleoso piano inclinato della psicosi. Nella norma la “virtualizzazione della realtà” può essere concepita come un complesso sistema adattativo tra il mondo virtuale in noi e quello reale fuori di noi. Come dire, i dieci alla dodicesima neuroni di cui disponiamo si adattano alle esperienze che comunichiamo loro, imparano, collegano, prevedono e progressivamente si auto correggono per meglio convivere con le nuove esperienze. Per dirla con Heidegger, imparano a usare il mondo nel quale si trovano a essere “gettati”.

Intorno al 1958, forse già poco prima, lo psichiatra tedesco Klaus Conrad studiava il fenomeno che lui stesso battezzò come apofenia, dal greco apo (via da) e phainein (far vedere) riconoscibile come la percezione di connessioni tra fenomeni che, apparentemente, non mostrano chiare corrispondenze tra loro. Non credo avesse meditata conoscenza del manifesto poetico baudleriano implicito in Corrispondenze (Les fleurs du mal), infatti indicava tale atteggiamento come una condizione patologica di natura schizoide che definiva “osservazione immotivata di connessioni [tra fenomeni accompagnata] da una precisa sensazione di anormale significatività”. Le nuove ricerche neurologiche suggeriscono una posizione meno tranchant utilizzando il termine apofenia con un’accezione più ampia e non esclusivamente come relativo a condizioni patologiche e confini psichiatrici. Insomma, nella costruzione del “nostro personale mondo virtuale” tutti riconosciamo intime connessioni tra fenomeni non per una intrinseca e oggettiva relazione tra loro, tendiamo a unire ciò che ci si presenta come diviso, è una sorta di predisposizione aprioristica del nostro cervello. Peter Brugger, neurologo svizzero, sostiene che si tratta del bisogno peculiarmente umano di riconoscere ordine nel caso, atteggiamento che colloca alla base della creatività affermando che “apofenia e creatività potrebbero essere viste addirittura come due facce della stessa medaglia”. Come non riconoscere la poetica del veggente, di colui che vede e sente e coglie echi lontani fra foreste di simboli, di chi sa, per dirla con D’Annunzio, che la natura è bella agli occhi degli uomini quando questi avvertono il divieto che la costringe a tacere ciò che desidererebbe rivelare loro, così come dono a sé e al mondo da parte dell’artista è proprio avvertire e rivelare tale mistero.

Tornando al pensiero heideggeriano accennato poco sopra, la nostra mente, già strutturata secondo una modalità apofenica, si adatta progressivamente all’ambiente fisico e culturale nel quale si va formando individuando-edificando, secondo i principi dell’euristica del giudizio, una sorta di “schema ordinatore” del mondo esterno. Il meccanismo premiale che osanna chi meglio si adatta al proprio tempo e contemporaneamente marginalizza i meno omologati, artisti o border line sarà il tempo a deciderlo, realizza una sorta di gabbia logico comportamentale così che potremmo affermare che la mente diviene prigioniera del corpo e delle sue esperienze e l’io, per conseguenza, si sviluppa come prigioniero della mente. Preciso che con “euristica del giudizio” mi riferisco a quelle che potremmo definire come scorciatoie gnoseologiche e, necessariamente, alla base delle scelte quotidiane che nella quasi totalità risultano essere “automatiche”, insomma, non consapevoli. Questo fenomeno genera un grande vantaggio in termini operativi ma è estremamente pericoloso quando “automatismi etici e di giudizio” costruiscono una realtà condivisa nella quale la verità collettiva assurge a assioma inconfutabile. Per essere più espliciti: la mia verità, condivisa dalla maggioranza delle persone sane di mente, è la sola  verità e chi  non lo capisce è sbagliato. Lasciamo a margine di questa considerazione la pericolosa patologia antitetica che affligge i depositari di verità che vengono ritenute tali poiché il soggetto si pensa come genio incompreso, come espressione di una oligarchia scaltra e lungimirante capace di non lasciarsi ingannare dei “messaggi del potere” e limitiamoci all’effetto che la “surrettizia configurazione di una prospettiva solipsistica” che sembra, a mio modo di vedere almeno, contagiare l’umanità molto più intimamente di qualsiasi virus biologico.

La condizione patologica che possiamo riconoscere come degenerazione di una sana apofenia è riconoscibile nella virtualità della virtualità rappresentata da internet. Non si tratta più del mondo virtuale realizzato dal nostro cervello e dall’adattamento dello stesso attraverso l’intervento di una mente più o meno consapevole, ma di una virtualità predefinita alla quale l’approccio della mente sovrappone la propria struttura adattativo-virtuale. A questo punto il pericolo della schizofrenia collettiva diviene pressante, la riflessione cosciente, l’indagine di sé, l’interiorizzazione consapevole e ogni profondità auto analitica si perdono nell’inconsistenza di una “verità virtualmente reale” dove la progressiva disgregazione nullificante dell’io riconosce una ricomposizione nel mondo virtuale che, non è corretto affermare che non esiste, ma non è il nostro luogo di elezione. Ci muoviamo in esso adattandoci così da confermare “la prigionia della mente nel contesto e dell’io nella mente”. Mi permetto di ricorrere a quello che credo sia un personale neologismo, apofrenia, letteralmente “via dalla mente” come il suggerimento per perseguire una libertà dalla nuova strisciante “gattabuia dell’anima”. Se non è più possibile salvare la mente prigioniera proviamo a liberare noi stessi dalla mente convenzionale, se possiamo inventare la realtà, dio di noi stessi, concediamoci l’Eden.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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