“Tra ciò che penso, ciò che voglio dire, ciò che penso sia, ciò che dico, ciò che voi desiderate capire, ciò che intendete, ciò che comprendete… ci sono dieci possibilità che ci siano difficoltà di comunicazione. Ma proviamo comunque…” afferma lo scrittore francese Bernard Werber, già giornalista appassionato di mirmecologia, non è un caso se il suo primo romanzo si intitolava Formiche. In effetti sembra davvero che i piccoli insetti si capiscano perfettamente, il loro sistema sociale è una macchina estremamente funzionale, va anche precisato, però, che nel formicaio l’individuo non ha nessun valore rispetto al gruppo e che non ho mai sentito parlare di un Leonardo o di un Bach tra le formiche. Mi si perdoni il pleonasmo che va colto cum grano salis, ma il livello della comunicazione è spesso inversamente proporzionale alla qualità dei contenuti che intende condividere chi la realizza; insomma, più è elementare e pragmatico il messaggio più è facile renderlo efficace, ma è opportuno innalzare la qualità del lessico e la sua organizzazione al fine di condividere contenuti elevati o, come a mio avviso si tende a operare oggi, è più utile abbassare il livello di ciò che si vuole condividere?
Partiamo dalla radice etimologica del verbo, comunicare è mettere in comune, rendere partecipe l’interlocutore sia che lo si informi sulla data sia che gli si voglia rivelare la nostra riflessione più criptica. Resta il fatto che il risultato della comunicazione non va ricercato in quanto viene detto ma in ciò che raggiunge l’altro e lungo questa prospettiva impera il pessimismo, ne sono esempio l’affermazione di Franz Kafka: “Non si può esprimere ciò che si è proprio perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna”, il noto aforisma di Gorge Bernad Shaw: “L’unico grande problema della comunicazione è l’illusione che abbia avuto luogo” e, con profonde sfumature e diversità di senso, la filosofia di Heidegger e di Derridà. Forse nel primo possiamo trovare una certa possibilità di coglimento dell’essere per opera dell’arte ma, per ricorrere alle parole sull’arte espresse da Gershom Freeman che confutano l’affermazione heideggeriana, “Poiché non può essere vera almeno che sia sincera”. Si apre, a questo punto, l’enorme questione della possibilità di cogliere il vero fuori di noi o almeno quello che reputiamo tale, in ogni caso permane il peccato originale del soggetto come strettoia inverante del proprio pensiero e della propria esperienza di vita, ma non è questo l’oggetto di queste righe, ci basti per ora la consapevolezza, in tal senso è utile il pensiero di Derridà, che la parola, proprio in quanto entità fono-simbolica, non può mai coincidere con la realtà che intende comunicare anche quando pronunciata dall’anghelos, il messaggero del divino, poiché permane imprescindibile quanto l’ascoltatore coglie e sa comprendere e riportare del messaggio ricevuto, e qui ci fermiamo senza procedere oltre lungo questo impervio sentiero della filosofia del linguaggio. Limitiamoci ad affermare che la parola è un suono nomade alla ricerca di un senso, ma sempre un suono abitato dall’anima di un uomo, un nulla che disperatamente cerca di dire ed essere qualcosa, che non si accontenta di rimanere metafora e reclama la realtà, espressione meravigliosa e terribile di impotenza e grandezza del divino che è nell’uomo
Ogni parola, ogni messaggio, ogni discorso è paragonabile a una lettera: nel momento in cui la infili in una busta questa non è più ciò che hai scritto e volevi intendere ma ciò che diverrà in chi la riceverà. È plausibile affermare l’esistenza di una sorta di “verità ontologica” della lettera? Il concetto stesso di verità come aletheia, tolgo il velo e dietro c’è la verità, è una delle facce dell’arroganza della metafisica unita al terrore dell’abisso che è l’essere, il figlio di tali genitori è la smania di controllo che si incontra nella grammatica come nella geometria. L’una e l’altra sono metamorfosi del camaleonte dalla lingua biforcuta dove tutto è due nell’istante stesso in cui lo nega. Dietro al velo non c’è nulla fino a che gli occhi che osservano decideranno che ciò che hanno voluto e saputo vedere merita il nome di verità, ciò che ri-conosco come tale negli echi della mia anima, topos nel quale non valgono parole nate nel cuore o nel cervello ma solo quei musicati silenzi che creo, che sono suoni e profumo. Il profumo colto nel vento che potrà condividere chi ne gode l’aroma senza cercare di afferrarlo, senza aver bisogno di conoscere il fiore che al vento lo ha donato. Mi sembra si possa riandare a un concetto espresso da Paul Ricoeur analizzando il problema della traduzione: affermava che quando ci si rivolge a un altro vi si incontra sempre una sorta di straniero per cui, al fine di una accettabile comunicazione, suggeriva quella che definiva “etica dell’ospitalità linguistica”. Per antica frequentazione penso a quegli insegnanti che, a seguito della richiesta di uno studente che non ha compreso il concetto, lo ripresentano con le stesse parole senza tentare una sorta di “traduzione” in una diversa espressione più prossima alle possibilità dell’ascoltatore.
Vi è mai capitato di osservare qualcuno che, esprimendosi nella propria lingua con uno straniero, sillaba ogni parola sempre nel proprio idioma alzando il volume della voce quasi che l’altro avesse qualche ritardo cognitivo o fisiologico e il problema fosse in lui e non nel codice? Penso sia evidente che la comunicazione “mette in comune” solo se sostenuta da un “territorio semiotico condiviso”, quasi che ogni parola fosse una sorta di pregiudizio che avvicina chi lo condivide ed esclude chi non ne partecipa. La parola può essere quella del dizionario, concordata e asettica, anche se sempre figlia del compilatore, ma quando pronunciata si insaporisce del parlante divenendo “parola metafora”, sonorità che esprime il ritmo di chi la “suona”. Ognuno di noi ha un suo esclusivo ritmo che lo rende unico, come le impronte digitali, le corde vocali, il DNA, ma anche il gesticolare o l’incedere. Potremmo affermare che ciò che nel dizionario è un termine diviene parola attraverso l’intima connessione con chi la impiega, questa è la base del funzionamento del linguaggio nel complesso rapporto tra significante e significato. Socchiudo la porta verso la questione del tipico impiego adolescenziale dello slang, non poi così lontano da quello sociologicamente più indagato dello “slang di classe e di clan”, e subito la richiudo. Ci basti sottolineare l’importanza del rispetto e dell’amore che dobbiamo alla più sconvolgente creazione dell’uomo, la parola, arbitraria metafora poietica che non deve renderci sudditi ma liberarci, che non deve essere violentata ma divenire complice compagna di viaggio.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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