“Che strana scoperta, quando si comincia a imparare la teoria dell’indicativo e del congiuntivo: per la prima volta ci si accorge che tutto dipende dal «come» la cosa è pensata, e che il pensiero nella sua assolutezza sostituisce una realtà apparente. […] L’indicativo pensa la cosa come reale (cioè l’identità del pensiero e della realtà); il congiuntivo la pensa possibile.” scrive Soren Kierkegaard nel Diario (1834/55), eppure oramai il congiuntivo è morto, “ucciso da quegli strumenti di comunicazione che in anglo-latino si chiamano mass media e in italiano mezzi di massa” come malinconicamente afferma Cesare Marchi in “Impariamo l’italiano”. Credo sia nella memoria di intere generazioni il surreale dialogo tra Filini e Fantozzi al campo da tennis: “Allora, ragioniere, che fa? Batti?” / “Ma… mi dà del tu?” / “No, no! Dicevo: batti lei?” / “Ah, congiuntivo!”, ma quello che davvero dovrebbe preoccupare è il dilagare delle violenze alle quali il povero congiuntivo è sottoposto anche da soggetti che dovrebbero essere espressione di un alto livello culturale o, almeno, che dovrebbero parlare un italiano corretto. Potremmo portare a sostegno di quanto affermato innumerevoli esempi, il più recente mi è occorso di sentirlo nel corso della dichiarazione di un eminente politico, un noto Onorevole, alto rappresentante della Repubblica italiana, in passato Ministro dell’ambiente e più recentemente Ministro del lavoro e delle politiche sociali il quale, commentando la nomina dei Presidenti nei due rami del Parlamento dichiara, contestando le affermazioni di esponenti della maggioranza che assicuravano non voler essere divisivi: “Se volevano dividere allora cosa facevano?” Che fine ha fatto il periodo ipotetico? Eccolo lì, in un angolo a soffrire e a contorcersi inorridito sussurrando “Se avessero voluto, maledetto ignorante, se avessero voluto” per poi allontanarsi disgustato.
Potremmo a lungo intrattenerci sull’agonia del congiuntivo e sul degrado linguistico e, inevitabilmente, culturale della classe dirigente nazionale, come scordare il “la telefonerò” dell’ex Ministro degli esteri rivolto alla Sindaco di Roma, l’auto definirsi in – piegato da parte del neo Presidente della Camera, così come l’utilizzo dell’imperfetto indicativo, sia nella protasi che nell’apodosi, per costruire il periodo ipotetico dell’irrealtà rinunciando al corretto ed elegante impiego di congiuntivo e condizionale nel cosiddetto “parlare comune” D’altra parte i doppiaggi dei telefilm americani insegnano molto di più dei poveri docenti, in effetti, come scrive Alfio Caruso su La Stampa :”Per acquisire la fluidità necessaria a onorare il congiuntivo da mattina a sera servivano la pazienza, la tenacia di schiere d’insegnanti e il rigore dei genitori. Finché la famiglia e la scuola hanno retto, finché ci sono stati padri e madri persuasi che l’insufficienza o la bocciatura del figlio non fosse addebitabile al malanimo dei professori e finché questi hanno creduto di esercitare una missione, non di svolgere un lavoro salariato, il congiuntivo è rimasto sulla breccia a ricordarci l’importanza della forma, la prevalenza del dovere sulla comodità”, ma ci basti la caustica ironia dell’amico Gershom Freeman al quale concediamo la deliberata promiscuità fra modi e tempi verbali vista l’efficacia della sintesi: “Il futuro sarà certamente un problema per i nostri giovani, ma il congiuntivo lo è già da tempo”. E non sia rifugio sostenere che nella lingua inglese non esiste il congiuntivo! È vero che viene considerato un “modo verbale obsoleto” e che è complicato riconoscerlo dall’indicativo nell’uso anglosassone, ma esiste ed è utilizzato. La domanda che vorrei porre è più sottile e mi piace ricorrere all’interrogativo stimolante posto da Nietzsche: “chi parla?”
Sull’interrogativo del pensatore di Roken si fonda gran parte della moderna linguistica ponendo al centro della ricerca il ruolo del soggetto come origine del mutamento semantico delle parole e prende il via una sua riflessione dalla profondità abissale alla quale rimando il lettore interessato, ma preferisco, con assoluta modestia, provare a osservare il meraviglioso fenomeno del rapporto tra l’animale che parla e il linguaggio rovesciandone i ruoli: quanto la parola e la sua organizzazione grammaticale agiscono sul soggetto e sul sistema che abita e determina? L’ironia sull’impiego corretto del congiuntivo o la denuncia degli abusi ai quali è sottoposto è la provocazione, più facile, forse, ma credo intrigante, caustica ed efficace, per condurci alla domanda intorno a quanto il nostro modo di parlare sia figlio e genitore del nostro modo di pensare ed essere. Per essere ancora più esplicito: è l’impiego del congiuntivo che rende capaci al dubbio, all’ipotesi, all’esortazione e solleva sopra l’arroganza egoriferita della certezza superficiale, oppure è una natura propensa alla ricerca che ha bisogno delle sfumature del congiuntivo e non può limitarsi all’elementarità comoda ma eccessivamente semplificatrice dell’indicativo? Ho avuto modo di leggere studi e riflessioni di esperti linguisti o accorti sociologi che concordano sul fatto che l’abbandono del congiuntivo e il sistematico impiego dell’indicativo stiano a indicare un passaggio dalla capacità di formulare ipotesi, dubbi, interrogativi alla supponenza e all’arroganza di facili certezze acritiche. Come non vederne la conferma nelle assiomatiche verità proclamate da pseudo intellettuali nel ruolo ambiguo di opinionisti televisivi, individui impermeabili, capaci, se smentiti dai fatti, di stridenti arrampicate sugli specchi a difesa di qualunque sciocchezza se proferita da loro o da esponenti della propria fazione. Ma dedichiamoci a questioni più serie!
Temo che la dilagante ignoranza, il basso bisogno di banalizzazione spacciato per chiarezza e condiscendenza verso i più fragili culturalmente, il vuoto etico e intellettuale imperante si nascondano dietro la povertà di un linguaggio che, incapace alla profondità, rinuncia al dubbio e all’ipotesi inconsapevolmente. Insomma, non è l’ostentazione di aggressiva sicurezza che sopprime il congiuntivo, ma l’incapacità nell’utilizzo dello stesso che genera banale superficialità comunicativa. Non si è liberi perché si decide di non usare un modo verbale se non si è in grado di farlo, questa libertà si chiama ignoranza. Se si conosce solo l’indicativo non si ha la possibilità delle sfumature del congiuntivo, se la realtà è nella nostra capacità di pensarla e per pensare abbiamo bisogno delle parole ecco che una tavolozza monocroma, quella dell’indicativo, si trasforma in un meraviglioso arcobaleno cangiante se arricchita dal congiuntivo. Se con il nostro linguaggio rappresentiamo la nostra vita, risulta evidente il salto di qualità; la parola non è solo un suono ma un segno nomade alla ricerca di un senso, cioè un suono abitato dall’anima di un uomo, un nulla che disperatamente cerca di dire qualcosa, che non si accontenta di essere metafora e reclama la realtà, così i modi verbali divengono tracce di potenza e grandezza del divino che è nell’uomo, struttura portante del pensiero che si può presentare nel suo multiforme essere e crescere. Se togliamo all’uomo la sua più sublime peculiarità lo annichiliamo, ma è altrettanto se non ancor più grave abbandonarlo nella convinzione che un misero dire ne conservi la dignità quanto un policromo rappresentare. Ci attendono intere generazioni di analfabeti digitalizzati, incapaci alla lettura e all’atto creativo che comporta, popolazioni di video dipendenti che baratterebbero un affresco michelangiolesco con un poster o un tatuaggio, greggi facilmente irregimentabili … quale apocalittico mondo di silenzioso frastuono. Insomma, come potrebbe degnamente affermare qualche Ministro della Repubblica: “Che ne sarebbe della lingua italiana se il congiuntivo scomparirebbe?”
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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