Vado Ligure. “Ho sempre avuto il sogno di arrivare in Serie A: in quella categoria c’è un’atmosfera incredibile. Ora però penso al presente e a migliorarmi sempre di più“.
Quando si nasce in un ambiente nel quale c’è un minimo comune denominatore, in questo caso una disciplina sportiva, è molto indicato che si crei una sorta di tradizione da tramandare. A volte non capita, ma nella famiglia Morando è ciò che sta accadendo.
Il classe 2004, Alessandro, sta seguendo le orme del padre Sergio e dello zio Sandro, entrambi giocatori professionisti di pallacanestro. Per il primo esperienze tra Serie C e Serie B, mentre il secondo è arrivato a giocare in massima serie.
Certo, il percorso è veramente lungo per un ragazzo di nemmeno vent’anni, ma la passione per la palla a spicchi è sempre stata forte.
Iniziando nella società dello zio a Savona, passando poi per Vado e Loano da Emanuele Bira Campisi, una persona che ha significato molto per lui, andando fuori regione nella Junior Casale e nel Don Bosco Livorno, ora Alessandro Morando è ritornato nella squadra di Marco Saltarelli: “Mi sto trovando molto bene, conosco tutti e sento tanta fiducia in me. Con il coach ho giocato contro diverse volte, quindi alla sua chiamata di quest’anno ho voluto accettare”.
Come detto, l’amore per la pallacanestro non è nato così all’improvviso: “Ho incominciato a giocare all’età di quattro anni grazie ai miei genitori. Provenendo da una famiglia di ‘baskettari‘, con questo sport è stato subito amore a prima vista. Casa mia è piena di canestri, giusto per far capire quanto sia forte la passione. Col passare del tempo ho cominciato a giocare agonisticamente, ma sempre con il pensiero di divertirmi: molti ragazzi lo fanno sentendosi obbligati, invece mio padre mi ha sempre lasciato libero di scegliere, volendo testare direttamente se io fossi interessato. Non mi sono mai fatto problemi a prendere il pullman ogni volta, non vedevo l’ora di arrivare in palestra“.
Anche perché fare esperienze fuori regione, avendo appena 13 anni, vuol dire proprio averla dentro di sé: “Io ho sempre sofferto a stare lontano da casa però mio padre mi veniva a trovare spesso, supportandomi e aiutandomi sempre con le sue parole. Non potendo uscire con gli amici, c’era solo la palestra come luogo di sfogo. Al pomeriggio andavamo sempre a mangiare in un ristorante, con l’allenatore della Prima Squadra che, se ci vedeva mangiare con i gomiti sul tavolo, ci tirava qualche colpetto. Bisognava andare bene a scuola per poter giocare: io ero bravo, era necessario avere sempre la testa a posto per imparare a vivere in quell’esperienza”.
“In pochi ragazzi della mia età, o più piccoli, vanno in palestra con voglia di migliorarsi – conclude il giovane cestista finalese – In Liguria questo sport viene visto semplicemente come una riunione tra amici, come andare al campetto. Da una parte può essere un bene, siccome il divertimento è assicurato, ma dall’altra è sbagliato non prendere le cose sul serio. Per me il basket è una routine di ogni giorno, non ce la farei a starne senza. Giocando mi sento me stesso, vivo“.