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Per un pensiero altro

Nei dintorni di Babele

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

pensiero altro 19 ottobre 2022

“Ma Jhwh scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo e pensò: “Costoro vogliono essere un solo popolo con una sola lingua. Questo è l’inizio della loro impresa: ora faranno quanto hanno progettato, pensando di avere potenza divina. Forza, scendiamo a confondere la loro lingua, cosicché l’uno non comprenda più la lingua dell’altro” Genesi 11: 5,6,7. Si tratta inconfondibilmente, della narrazione biblica circa l’origine delle varie lingue dell’uomo. Non ci interessa un approccio esegetico al testo sacro che lasciamo agli esperti del settore, ci basti sottolineare come il racconto mosaico si accosti significativamente a molte altre mitologie più o meno coeve di paesi e popolazioni assolutamente diverse. Un mito quasi perfettamente identico è presente, infatti, anche nella cultura polinesiana e miti simili si trovano nella mitologia messicana e sumera e in quella degli aborigeni del Centro America. E ancora, la narrazione azteca descrive l’arrivo di una colomba che porta in dono una lingua diversa per i figli muti di Coxcox e Xochiquetzal, simili ai nostri Adamo ed Eva; il mito Bantù racconta di una malattia che fece impazzire gli umani che cominciarono a delirare generando le lingue diverse, la versione australiana descrive un approccio antropofagico in cui Wurruri, una vecchia donna, divenne cibo per gli uomini che, nutrendosi di parti diverse e in tempi diversi del suo corpo, generò differenti lingue; il racconto Hindu vede come protagonisti Brahma e l’albero della conoscenza che avrebbe tenuto uniti gli uomini, il dio ne spezzò i rami sparpagliandoli per il mondo così da dare origini a diverse religioni, linguaggi e culture, per gli indiani del Nord America l’intervento divino si manifesta in una tempesta che disperse gli uomini tenendoli separati a lungo fino a che, una volta ricongiunti, avevano elaborato diverse lingue. Non ci occupiamo nemmeno del fatto che si tratti di coincidenze casuali, di un progetto più alto, di una prova a favore della fondatezza o meno di quanto descritto, più interessante, in questa sede, appare una riflessione “altra” sul messaggio omogeneo e più o meno subliminale contenuto nel racconto.

La filologia ha individuato quelli che potremmo definire “fossili linguistici” nel tentativo di documentare scientificamente l’origine delle lingue e li colloca nei più antichi documenti scritti, non penso sia plausibile sperare di poter trovare altro, databili tra 5 e i 4 mila anni fa. È interessante sottolineare che sono stati rinvenuti nella bassa Mesopotamia nel sito della località chiamata Sinar o Sennaar che è citata nel Genesi: “Tutta la terra aveva una sola lingua e parole identiche. Migrando da oriente gli uomini trovarono una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono” ed è in quella località che diedero inizio alla costruzione della famigerata torre suscitando l’ira di Jhwh. La volontà espressa dal “popolo degli uomini che parlano una sola lingua” viene vissuta dal dio degli ebrei come molto simile alla hybris greca (interessante la traduzione del termine in inglese) che meritò la punizione olimpica. Insomma, mi sembra che i dati omogenei a numerose diverse mitologie possano sintetizzarsi nell’esistenza di una lingua e una cultura comune a tutti gli uomini, nel terrore di dio che questo concedesse eccessivo potere agli stessi e nel suo intervento ispirato al principio latino “divide et impera” ed ecco che il linguaggio, capacità peculiare e formidabile dell’essere umano, si trasforma in un pericoloso strumento causa e radice di fragilità, oggetto di ricatto divino e di controllo. Senza scomodare le abissali considerazioni dell’amico Gershom Freeman, “Ecco cos’è la parola, uno strumento formale per consentirci di osservare l’abisso senza vederlo, l’istituzionalizzazione della filosofia dello struzzo: non vedo l’abisso poiché lo rendo superficie e quindi l’abisso non esiste” che da sole richiederebbero ben altro argomentare, limitiamoci al compito che ci siamo prefissati e interroghiamoci sul potere e sulla vulnerabilità che il linguaggio regala all’uomo.

In altri termini: il linguaggio è una conquista meravigliosa o un pericoloso nemico interno? Prendo spunto dalla caustica ironia di Indro Montanelli quando commenta le risposte dei politici alla domanda che nessuno ha fatto loro: “Il bello dei politici è che, quando rispondono, uno non capisce più cosa gli aveva domandato”, insomma, la babele lessicale come volontà o inettitudine di chi parla. Vogliamo scendere dall’olimpo di Montecitorio a noi comuni mortali alla ricerca di altre diffuse abilità annichilenti la comunicazione? Alla banalissima domanda: “Hai fame?” la risposta “Ho già mangiato”. Si tratta di una risposta che non risponde in questo caso abbastanza utile, ma non certa, infatti può significare “No, perché ho già mangiato” ma anche “Ho già mangiato, non dovrei, però …”; oppure “Ho già mangiato, ma decisamente troppo poco, mi vergogno ad ammetterlo ma si, se insisti …” o addirittura “Ho già mangiato, sono a dieta, maledizione, non mi provocare”. È evidente che deliberatamente ho fatto ricorso a una frase banale, ma quante volte abbiamo sperimentato risposte che non si assumono l’onere e il privilegio della chiarezza? E questo ci riporta alla citazione di Montanelli oppure, per rimanere in ambito biblico, alle parole di Gesù: ”Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. (Mt 5, 17-37). Concordo con l’affermazione di Emil Cioran “Non si vive in un paese, si vive in una lingua”, ma chioserei: “Si vive nella qualità dell’impiego di una lingua”. Non è questo il luogo né abbiamo spazio per un’adeguata riflessione sul linguaggio implicita nel pensiero di Gershom sopra riportato, ci bastino brevi rimandi come le parole del filosofo tedesco-americano Walter Kaufmann tanto prossime al pensiero di Nietzsche: “Le parole significano il rifiuto dell’uomo di accettare il mondo così com’è” o la meravigliosa sintesi di Mallarmé: “Ciò che parla è la parola stessa nella sua solitudine, nella sua vibrazione fragile, nel suo nulla”. Per chi fosse interessato ad approfondire suggerisco la lettura di”Sul pathos della verità” e “Su verità e menzogna in senso extramorale” di Nietzsche alle quali mi ispiro per provare una provvisoria e caduca conclusione ritornando alla citazione dell’incipit.

Lasciando a margine la questione se il linguaggio sia un dono divino o la costruzione dell’uomo, quello che è certo è che la rappresentazione di dio e del suo pensiero così come della sua volontà e delle sue azioni richiedono un linguaggio che le renda narrazione, in questa prospettiva le parole di Jhwh sono contemporaneamente rappresentazione della paura dell’uomo e della paura che l’uomo immagina debba abitare il suo dio così come, specularmente, rappresentano la divinità dell’uomo e del suo dio e, forse ancor di più, la disperata urgenza di potere di entrambi, di controllo sull’essere, insomma, la coincidenza tra la voce di dio e quella dell’umanità è figlia del bisogno di tradurre in metafora sonora e poi grafica l’incomprensibilità dell’essere non ancora trasformato in linguaggio. Ma questo costringe l’uomo a vivere in un sogno, nell’inganno dell’incedere verso una verità gnoseologica in senso ontologico che gli sfugge costantemente all’orizzonte alla stessa velocità del suo medesimo procedere. Non ci consentirà il linguaggio la conquista e il controllo della verità, ma almeno ci permetterà di fare grande poesia, di confrontarci come stiamo facendo in queste pur umili righe sempre che si abbia la voglia e il coraggio di dire e non fuggire nascosti dalla nebbia della ambigua comunicazione convenzionale. La vita inautentica è la matrigna e la figlia del si dice, del riconoscere verità oggettiva a ciò che è metafora e paradossalmente precludere alla parola stessa la possibilità “solitaria e fragile” di mettere in contatto le nostre profondità più intime, è proprio questa la faccia malinconica di ogni “solitudine e fragilità umana”.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli

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