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Per un pensiero altro

Il valore di un no

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

Generico ottobre 2022

“Jenny … mi dispiace”. “No, amare significa non dover mai dire mi spiace”. Sono le battute forse più famose del film Love Story, un grandissimo successo del regista Arthur Hiller che portò enormi incassi alla Paramount Pictures oltre a un Oscar per la colonna sonora di Francis Lai, a  5 Golden Globe e 2 David di Donatello, ma fu soprattutto la pellicola che maggiormente commosse intere generazioni nel corso degli anni 70. Durante le riprese del film Erich Segal, autore della sceneggiatura originale, ne ricavò l’omonimo romanzo divenuto ben presto un best seller mondiale. Sono sicuro che a ben pochi sia rimasta impressa la citazione latina tratta da un Carme catulliano che l’autore colloca come dedica in apertura, ma per certo la tragica storia d’amore è sopravvissuta tra le pieghe della memoria del cuore a molti miei più o meno coetanei e, forse, la replica di Jennifer alle scuse del suo giovane compagno Oliver è divenuta un’icona che ben rappresenta una precisa concezione di cosa significhi amare. Per chi non conoscesse la vicenda mi limito a una brevissima narrazione: i protagonisti sono Oliver Barret, rampollo di una ricca famiglia americana, studente di Harvard e giocatore di hockey e l’italoamericana Jennifer Cavalleri, figlia di un emigrato che vive del proprio lavoro. Fra i due giovani nasce un’intensissima storia d’amore che viene contrastato dalla famiglia del giovane, il sentimento è così forte da sostenere la lotta dei due innamorati e tutto sembra divenire una piacevolissima vicenda quando Jennifer scopre di avere la leucemia e l’epilogo della vicenda assume note strazianti fino all’inevitabile morte della protagonista, questo ci basti e torniamo al tema: Amare significa non dover mai chiedere scusa?

Il senso della frase è chiarissimo: se ami davvero è impossibile che non ti accorga di fare del male a chi ami, pertanto se lo fai non hai scuse, insomma, vuol dire che non ami. Da un punto di vista strettamente razionale il sillogismo funziona, ma nella prassi quotidiana sappiamo bene che non tutto è figlio di una logica così perfetta, soprattutto quando si parla d’amore, di quello che non dura il tempo di una pellicola cinematografica ma che si misura con il cambiamento dei protagonisti nel corso degli anni, con i problemi banali ma logoranti del quotidiano, con la stanchezza e l’alito pesante, con le bollette e la rata del mutuo, con quella farsa malinconica che è tutto ciò che accade e lasciamo accadere mentre la vita scivola via, ebbene, senza dilungarci in narrazioni che non potrebbero mai essere esaustive e onnicomprensive, lasciamo che ognuno ripensi alla propria esperienza e torniamo all’affermazione di apertura. In quello che è la realtà privata ognuno di noi sa bene che è inevitabile in ogni relazione di ferire il partner, si tratti di amore o amicizia in fondo non cambia molto. Insomma, a chi non è mai occorso di “sbagliare”? A volte ce ne rendiamo conto, altre è necessario che la vittima del nostro errore ce lo faccia notare, a questo punto si aprono due vie: chiedere scusa o accampare delle scuse. La seconda via è quella più comoda e vigliacca, si tende a perdonarci e a scaricare parte della responsabilità sull’altro, e può avere un fondamento questo comportamento, ma in fondo sappiamo che non serve, non ripara, non recupera, anzi, edifica un malessere che rimarrà per molto tempo se non per sempre fra le due persone in questione. Allora è più onesto e utile assumersi la responsabilità, sinceramente, restituendo a chi abbiamo offeso la possibilità di recuperare fiducia in sé e nel rapporto, solo se ci scusiamo l’altro può comprendere di essere davvero oggetto del nostro sentimento, in caso contrario non potrà più sentirsi amato e, di conseguenza, adeguatamente amarci.

C’è poi il caso di chi si sente offeso, convinto di aver subito un torto che è, in realtà, la conseguenza di azioni compiute dalla presunta vittima che non ha il coraggio o l’intelligenza o l’onestà di prenderne coscienza, in questo caso chiedere scusa sarebbe connivenza, una sorta di conferma dell’inettitudine dell’altro, ma è una situazione così squallida che la lascerei ai margini del nostro argomentare. Torniamo alla frase di Jennifer, la ragazza esordisce con un “No”, che significa? Mi piace leggerlo come un, “No, non chiedere scusa, so che mi ami e so di amarti, non ce n’è bisogno, ti ho già perdonato perché sono profondamente parte del sentimento che ci lega”. Questo è amore, se si ha bisogno delle scuse si sta costruendo un rapporto sbilanciato, certo, solo nel caso di un amore sano, adulto, per dirla con Fromm; un amore nel quale i due protagonisti sanno osservare con lo sguardo dell’altro, ecco che le scuse sono sapute e non hanno bisogno di formalizzazione, ecco che l’offesa non ha più spazio. Il vetro rotto non viene riaggiustato, in quel caso ogni volta che vi si guardasse attraverso non si potrebbe fare a meno di avvertire la presenza della riparazione, non è una soluzione nemmeno sostituirlo con un altro, bisogna avere la forza, la forza che è solo dell’amore, di renderlo esattamente com’era, cancellare la crepa, non aggiustarla, rimuoverla, insomma, il vero amore è un grande restauratore, che sa amare e conoscere gli artisti che lo hanno dipinto e che, quando è necessario e sempre che la cosa non accada troppo spesso, è in grado di riportare l’opera al suo più intimo splendore.

Paul Ricoeur parla, in riferimento al perdono, di una “logica della sovrabbondanza”, credo che la sua espressione ben si attagli a quanto indicato poco sopra, l’amore è sovrabbondanza, è gioia di dare, è qualità restauratoria, quello che Ricoeur, se non ricordo male, definisce capacità di ricostruire una memoria. Non può essere concessione ma riappropriazione, certo, non è un’azione semplice, si tratta di slegare nodi complessi e non si può ricorrere alla soluzione gordiana, sono nodi che vanno sciolti in due e che, una volta dipanati, devono lasciare un capo del filo a ogni soggetto dell’azione che avrà modo di decidere se riannodare, se abbandonare il capo o se seguire il filo avvicinandosi sempre più all’altra estremità. Non vorrei però essere frainteso, la scusa e il perdono di cui parlo riguardano solo “le scuse difficili”, quelle che affondano profonde nell’anima, quelle che violano l’amore, non vanno confuse con banali incidenti di percorso. Per essere chiaro, non voglio che la mia riflessione possa divenire opportunistica scappatoia per chi non sa chiedere scusa. Troppa mediocre cinematografia americana ha costruito il modello del maschio alfa che non chiede scusa, un narcisista che confonde la forza con la fuga o l’arroganza, che non sa fidarsi dell’altro, che ha paura che l’altro possa approfittare di quello che lui ritiene una debolezza, probabilmente perché quello sarebbe il suo comportamento. Allo stesso modo non è positivo chiedere scusa con eccessiva facilità, si ricade nel medesimo errore, cioè nella disistima dell’altro poiché poco ci si cura del suo giudizio e di quello che prova, così le scuse diventano solo parole a giustificazione del prossimo inevitabile ripetersi del medesimo copione. Rimettiamo al centro della nostra riflessione il “No” di Jennifer ma non approfittiamone per consentire al macho di turno di evitare le scuse, anche se magari non esplicitate verbalmente, lo devono essere emotivamente, il dolore arrecato deve essere almeno equivalente a quello avvertito dal responsabile. Resta il problema che in amore si avvicinano due entità tra loro distinte e inevitabilmente diverse anche nella sofferenza come nel coraggio di amare e non esiste formula magica che possa cancellare questi confini se non nell’amore stesso, allora la sofferenza e la rinascita divengono prova della profondità del sentimento.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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