Savona. E’ fatta. Auspicata da alcuni, temuta da altri, in ogni caso largamente annunciata, la rivoluzione meloniana è realtà: mai prima d’ora nella storia italiana, dal dopoguerra ad oggi, un governo era stato così tanto sbilanciato a destra. Corsi e ricorsi storici: 100 anni esatti dopo la marcia su Roma, parte dello Stivale e gran parte della stampa estera gridano al ritorno del fascismo. Sarà verità o calunnia?
Intanto, il dato più importante di tutti: Fratelli d’italia è il primo partito con il 26%, ma in una elezione che ha visto al voto meno del 64% degli italiani. Ed è clamoroso perché mai, nella storia della Repubblica, erano stati così pochi.
Quando la democrazia era una conquista conquistata con sangue e sudore, e per questo nient’affatto scontata, a votare andava più del 93% degli aventi diritto. La prima volta sotto l’89% è stata nel 1983: da lì un calo costante, unica eccezione il 2006. Il muro dell’80% ha retto fino al 2013, quello successivo ha ceduto di schianto ieri. E in modo clamoroso.
Perché è tanto importante? Perché significa che a scegliere Meloni, in realtà, sono stati meno di 17 italiani su 100. Un po’ pochi per sostenere che l’Italia sia diventata di estrema destra. In realtà, più di 36 su 100 non sono nemmeno andati a votare: e a costoro, prima che a chi propugna legittimamente la propria idea, gli scontenti dovrebbero chiedere conto.
“Governeremo per tutti”, le prime parole di Giorgia Meloni. Dovrà farlo davvero, visto che (come tutti, ormai) rappresenta in realtà una esigua minoranza degli italiani. Sarà la prima premier donna, anche qui per la prima volta nella nostra storia. Comunque vada, insomma, questo 25 settembre 2022 rimarrà nei libri come uno dei giorni che ha cambiato l’Italia.
Ma i liguri e i savonesi hanno partecipato a questo cambiamento? In linea di massima “tanto quanto gli altri”, cioè poco. L’affluenza è praticamente sovrapponibile (superiore di un’unghia), il risultato quasi (FdI primo partito anche qui). Lo si capiva già nei giorni precedenti: le uniche due chiusure di campagna “pubbliche”, fatte da centrosinistra (in piazza Pertini) e terzo polo (in corso Vittorio Veneto), sono andate praticamente deserte. Con buona pace del nostro appello, e di chi sperava che un’affluenza più alta potesse convincere i partiti che il nostro territorio vale ancora qualcosa. Invece ci toccherà (ma già lo sapevamo) un parlamento desavonesizzato: l’estero Enrico Nan non ce l’ha fatta in Asia Africa e Oceania.
Il distacco tra FdI e Pd, però, da queste parti si assottiglia. E, in qualche caso, si ribalta. Succede soprattutto a Genova, dove nell’uninominale Camera 3 Pastorino riesce a scalzare Biasotti negando l’en plein al centrodestra; e dove nell’uninominale Camera 2 Cavo la spunta, ma Meloni arranca (20,51%) e il Pd rivendica (26,28%). Idem a Savona città: 26,50% per i dem, 20,90% per la Fiamma. Insomma, l’area da Savona a Genova “resiste”, come da tradizione, mentre il resto della regione segue l’onda.
Nel centrodestra a piangere sono soprattutto in due. La Lega anche in Liguria non supera il 10%: e se il dato finale è lievemente migliore di quello nazionale è solo perché il ponente ligure stampella un po’ il Carroccio. Rixi e gli altri candidati il loro lo hanno fatto, gli imputati sono da cercare più in alto. Matteo Salvini, senza dubbio: protagonista di una parabola simile a quella di Renzi, ha portato un partito ai vertici gridando “prima gli italiani” ma non è stato in grado di cambiare registro in tempo. Sui bus in questi giorni campeggiava la scritta “stop sbarchi”, come un disco rotto, come se 4 anni dopo non ci fosse nulla di nuovo da dire. Tempo di cambiare frontman, dirà qualcuno. Ma le urne sembrano premiare chi ha silurato Draghi, non chi lo ha sostenuto: e allora anche gli oppositori interni di Salvini, i governisti, sembrano destinati alla graticola.
Toti invece precipita proprio. E senza paracadute: Noi Moderati sfonda a malapena il 2% a casa sua, e nemmeno in tutti i collegi. Una mazzata per chi sperava proprio nel traino ligure per superare il 3% nazionale (e invece è sotto l’1%, il che significa “voti dispersi” e di conseguenza nessun peso, neanche minimo, nella coalizione). I tempi delle regionali 2020 sembrano lontanissimi. Altre elezioni, altri loghi, certo. Ma allora il nome di Toti era assicurazione di vittoria, oggi è stato ininfluente. E i territori più arrabbiati (ah, la sanità…) gli hanno gridato tutto il loro disappunto, con percentuali shock. Toccherà a Toti ora porsi domande, e cercare correttivi. Altrimenti altro che terzo mandato, il rischio è di trasformare in un inferno già il secondo.
Cos’altro dicono le urne? Che non si votano più le idee, ma le persone. Come Meloni, come Giuseppe Conte. L’avvocato del popolo ha resuscitato un MoVimento che sembrava già morto. Soprattutto al Sud, certo, ma in Liguria ha comunque raggranellato un 12,8% con rassicurante distacco dalla Lega.
Si votano i leader. Chi non lo ha capito è il Pd: ha puntato su Letta, ed è stato punito. Un mese a mettere in guardia sul pericolo fascista, “votate noi per non far vincere Meloni”. Un unico, triste ritornello ripetuto anche da Orlando, per 30 minuti, nella chiusura di campagna a Savona. In un mese non un’idea, non una proposta. Poi ci si meraviglia dell’astensione. E’ tempo di cambiare: Stefano Bonaccini al timone, Elly Schlein a fare la sinistra. Se si deve perdere, almeno lo si faccia con idee proprie. E si gettino nuove fondamenta.
Infine il terzo polo. Deluso anche lui. I numeri dicono che se Letta, Conte, Calenda&Renzi si fossero uniti invece di farsi campagna contro avrebbero vinto. Se avevano tanta paura dell’onda nera, se davvero il ritorno del fascismo era tanto pericoloso da puntarci una intera campagna elettorale, non unirsi per arginarlo è stata una mossa suicida e irresponsabile.
A meno che non fosse solo una scusa, e si sia preferito lasciare agli avversari la patata bollente di un governo che dovrà affrontare da subito periodi complicati, tra politica estera, caro energia, Pnrr da gestire. Il rischio di perdere il consenso è dietro l’angolo. Magari per questo sono scappati tutti, ognuno a rincorrere i suoi guai, lasciando campo libero al centrodestra.