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Per un pensiero altro

Le mappe dell’io

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

pensiero altro 10 agosto 2022

“Non possiamo usare una vecchia mappa per esplorare un nuovo mondo” come non cogliere il riferimento di Albert Einstein al “nuovo mondo” che si presentava davanti ai suoi occhi, quello per il quale “la vecchia mappa”, predisposta grazie alle convenzionali coordinate dello spazio e del tempo newtoniano, non sarebbe stata utile. Certo il grande scienziato era anche ben consapevole di quanto fosse indispensabile l’esistenza della mappa precedente per l’elaborazione della nuova concepita secondo il principio dello spaziotempo. Permane comune in entrambe gli approcci la presunzione della riducibilità del reale alla sua rappresentazione sulla scorta delle coordinate a priori che ci consentono di trasformarlo e “mapparlo”, in ogni caso il problema non è mai dell’oggetto che non avverte alcuna urgenza di darsi alla pensabilità del soggetto, ma del soggetto che non può prescindere dall’organizzare l’altro da sé nelle forme della propria capacità di comprenderlo. È esattamente ciò che l’essere umano, unico sul pianeta, ha da sempre cercato di fare inventando il linguaggio: la parola è la nostra mappa dell’essere che ci rimarrebbe altrimenti inaccessibile.

Quanto appena affermato non è una risposta alla questione ma, al contrario e come sempre accade a ogni affermazione di un qualche valore filosofico, l’inizio di un “domino di domande”. Possono indicarne alcune le parole di Ludwig Wittgenstein:”Il linguaggio è un labirinto di strade, vieni da una parte e ti sai orientare, giungi allo stesso punto da un’altra parte e non ti raccapezzi più”; ecco perché la riflessione intorno a come parliamo e, anche se oramai può sembrare secondario, a cosa diciamo, diviene centrale e, a mio modo di vedere, nel tempo della “non-comunicazione diffusa” nel quale viviamo, ancor più rilevante se non drammatico. Si tratta di un tema che intimamente si connette con l’invasione di tecnologia della pseudo comunicazione che dilaga indisturbata e addirittura osannata nel villaggio globale. Concordo con l’affermazione di Pietro Trabucchi: ”Quando abbassiamo il livello di comunicazione in termini di quantità e di qualità, i “non detti” acquisiscono forza e vigore in maniera esponenziale. Si tratta di un pericolo insito in particolare in tutte le nuove tecnologie comunicative” che strettamente si lega a un concetto sintetizzato ancora una volta da Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo. Tutto ciò che io conosco è ciò per cui ho delle parole”; non tutto ciò che è, ma tutto ciò che conosco, è importante ribadirlo. Certo andrebbe precisato che l’approccio wittgensteiniano recepisce la grande intuizione della relatività einsteniana trasformando ciò che è in ciò che accade all’interno del nuovo paradigma, per dirla con Thomas Kuhn, ma limitiamoci a questa sola atomistica nota.

La prospettiva che provo a suggerire secondo un “pensiero altro” è che, indipendentemente dal paradigma dal quale si osserva l’oggetto, nell’osservatore passa la convinzione che esista una sorta di isomorfismo tra l’oggetto osservato e il linguaggio con il quale lo si descrive. È una convinzione aprioristica sulla quale si fonda l’incedere umano dai suoi primi passi fino a noi anche se, e ringraziamo di questo soprattutto il pensiero dei sofisti e quello di Schopenhauer, sappiamo bene che la rappresentazione è necessariamente altro rispetto a ciò che è rappresentato, sintetizzando con René Magritte: “Ceci n’est pas une pipe”. Ancora una volta quanto appena accennato può essere considerata una sorta di “risposta” solo se si comprende che è, di fatto, l’apertura a nuovi interrogativi. Dato per acquisito che una mappa non è la realtà e che “il linguaggio è uno dei peculiari strumenti per mappare l’essere di cui disponiamo”, come non avvertire il pericolo che stiamo correndo nel momento in cui deleghiamo al mezzo le forme e i modi della nostra comunicazione? Stiamo rinunciando alla funzione imprescindibile dei silenzi tra le parole, degli sguardi, del più intimo legame tra esseri umani che costituisce il pentagramma sul quale le parole hanno la funzione delle note, non è questo un abdicare all’essenza più profonda del dasein, per ricorrere ancora una volta a Heidegger? Insomma, se noi siamo intimamente il nostro linguaggio, che ne sarà dell’umanità se tale imprescindibile costituente dell’io viene delegato al mezzo? Sono convinto sia chiara a chiunque mi stia leggendo la complessità del problema e i pericoli ai quali andiamo incontro alla luce del progressivo depauperarsi del linguaggio, degrado che possiamo constatare semplicemente prestando attenzione alle “conversazioni-virtuali” che ci abitano ogni giorno, ai dibattiti televisivi, alle difficoltà che si incontrano nella comunicazione non appena ci si allontana dalla sua elementare funzione pratico-quotidiana. Ma ancora un ulteriore problema si prospetta all’orizzonte e, mi sembra, si avvicina a grandi passi.

Ognuno di noi è figlio di quel circolo ermeneutico che ci consente di definire e fruire del mondo, della vita e delle persone che entrano in rapporto con quell’io che perennemente diviene nel corso di tale attività, è pleonastico sottolineare la rilevanza che i mezzi, tramite i quali mettiamo in movimento tale circolo, lo condizionano determinando l’effetto conclusivo: l’io stesso. È altrettanto evidente che, se il mondo intorno a me diviene reale nel momento in cui il mezzo lo acquisisce virtualizzandolo, anche il soggetto finirà per inverarsi a sé e agli altri solo virtualizzandosi. Un sintomo evidente del fenomeno è l’impoverimento del linguaggio che, inevitabilmente, depaupera ciò che reifica nell’atto del dire; il povero mondo che posso cogliere si specchia nell’io che se lo rappresenta, lo fruisce e ne viene modificato. Per dirla con Einstein: la mappa di cui disponiamo è così approssimativa e confusa da offrirci un malandato strumento per orientarci. Arriviamo al “problema con le corna” che accennavo: credo sia evidente che il più importante oggetto di conoscenza per ogni essere umano sia se stesso, è necessario avere il coraggio di addentrarsi nell’io e credo sia evidente che la mappa di cui disponiamo sia il risultato delle tracce che riconosco nel momento stesso in cui le genero. Ogni segno sulla nostra mappa è impresso dal viaggio che stiamo compiendo e scompare al nostro procedere attendendoci al passo successivo. Non esiste un google map per l’io, né per il proprio né, ancor meno, per quello altrui; la “nuova mappa” reclamata da Einstein, realizzata sulla scorta del possesso di quella precedente, quella mappa che dovrebbe condurmi lungo i sentieri interrotti dell’anima, sarà inevitabilmente il misero effetto della mediocrità delle mie mappe precedenti. Pirandello parlerebbe di “una cosa in un mondo di cose”, a mio avviso il pericolo è ancora maggiore: un linguaggio tanto povero da nullificare il tutto annichilendolo nella più assoluta banalità non potrà che condurmi, sempre che un simile non-uomo ci si avventuri, lungo le tracce indiziarie di sentieri inconoscibili su sbiadite mappe dell’io.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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