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Per un pensiero altro

Agnes Heller e paideia

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

pensiero altro 24 agosto 2022

“Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: “prima di tutto, solo cose “inutili”, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose” è quanto afferma Agnes Heller in “Solo se sono libera” ed è certo che la filosofa ungherese aveva un alto concetto della libertà e, illuminata da questo faro, della funzione dell’insegnamento e della scuola. Ci basti ricordare il suo ruolo centrale nella “Scuola di Budapest”, espressione coraggiosa e colta del dissenso nei confronti della dittatura comunista che, nel corso soprattutto degli anni sessanta, la allontanò dall’insegnamento universitario e ne censurò le pubblicazioni. Mi piace ricordare lo stretto legame che avvertiva con il nostro paese, specie con la cultura del Rinascimento e con Firenze tanto da visitare appassionata la nostra terra e scrivere in “Morale e rivoluzione: “[…] fu il mio primo viaggio in occidente […] nelle vie, nelle chiese, nelle case, nei palazzi di Firenze ho incontrato un sogno, o meglio, ho incontrato il mio sogno di un mondo adeguato all’uomo. Una volta che i confini dell’occidente si erano di nuovo richiusi per me, volevo semplicemente tornare in questo mondo, anche se solo con la fantasia, col pensiero. Se volete fu un libro d’amore: una dichiarazione d’amore per l’Italia”. Credo che nel nostro Rinascimento la filosofa ungherese cogliesse le radici del suo pensiero più originale, quello che è noto presso di noi come la teorica dei “bisogni radicali” che mettono al centro l’individuo in un conflitto dialettico con il potere. Mi sembra utile, a questo punto, il rimando alla cultura greca della paideia per meglio comprendere la portata del pensiero della Heller nella sua espressione pedagogica che ho provato a sintetizzare nella citazione d’apertura.

Il termine paideia deriva dalla parola greca che significa ragazzo anche se il significato più proprio del termine è tanto articolato da essere divenuto oggetto di ampio dibattito sia alle origini dello stesso che nel senso più prossimo a noi. Se all’inizio della storia dell’educazione in Grecia il suo valore si riconosceva nei contenuti acquisiti, amore e rispetto per il proprio corpo e studio delle discipline riferite alle Muse, nel suo tragitto, attraverso il pensiero sofista fino all’approdo nel Liceo e nell’Accademia, il valore del termine si colora di note etiche, psicologiche, antropologiche e sociologiche fino a divenire sinonimo di cittadino responsabile e, forse ancor più profondamente, essere umano autocosciente. Qual è il legame intimo che mi sembra di individuare tra il più recente pensiero della Heller e quello arcaico greco mi sembra evidente: l’insegnamento deve avere per oggetto la persona e non il suo saper fare fino teso far coincidere il ruolo nel sistema con il soggetto umano. Per essere ancora più esplicito: la domanda all’origine di questa prospettiva è intorno alla funzione della scuola. Mi rendo ben conto che può apparire una domanda oziosa soprattutto alla luce dell’omologante atteggiamento delle istituzioni che ha caratterizzato in maniera assolutamente invasiva sia le direttive politiche che la mentalità del cittadino. Se oggi proviamo a chiedere a qualsiasi studente così come a qualsiasi genitore quale reputi essere la funzione della scuola la risposta sarà più o meno unanime: a preparare il giovane al mondo del lavoro. A mio modo di vedere, ancor più malinconicamente, una simile visione abita anche gran parte della categoria docente. Anche se può apparire pleonastico precisarlo è evidente che non sono assolutamente d’accordo con questa impostazione mentre mi riconosco molto di più nel pensiero della Heller e nella teorica della paideia.

L’orientamento dei nostri governi, indipendentemente dalla collocazione in una certa parte politica, si è omologata come ben si può riconoscere nelle varie riforme scolastiche che hanno segnato particolarmente gli ultimi trentanni, possiamo fare esplicito riferimento alla legge 107/2015, quella che molto sottilmente è stata presentata come “Buona scuola”, e la legge 183/2014 nota come Jobs Act. L’azione congiunta dei due interventi, è a mio avviso incidentale l’area politica che li ha generati, sempre che si riesca ancora a distinguere un’idea caratterizzante in questo contesto visto la promiscuità o assenza di visione generale, dicevo, l’azione congiunta vuole affrontare il problema dell’occupazione e, come spesso accade, il dibattito mediocre che ne segue lascia passare nel pensiero collettivo che il vero problema non sia più il giovane ma la sua occupazione futura. La presunta soluzione di questa questione è riconoscibile nella cosiddetta attività di scuola-lavoro che oggi è elegantemente nominata nella scuola con un acronimo che non ne ha minimamente modificato i fondamenti. Il senso è che, poiché ciò che conta è il tuo futuro ruolo di lavoratore o, meglio ancora, produttore consumatore, sarà bene che ti renda conto di quali informazioni è bene che tu acquisisca per poter ambire a una occupazione il più remunerativa possibile. Il sottotesto recita più o meno così: che importa se non sei capace di un pensiero libero e originale, che conta la tua consapevolezza dell’essere capace a porti domande fuori dalla logica di mercato, che senso ha chiederti chi sei quando è così semplice pensarti come la tua futura occupazione e relativo conto corrente? Sarà un caso che la parola cultura sia scomparsa dai testi delle riforme per lasciar posto a conoscenza e competenza? Insomma, meglio un depensato operativo che un uomo libero e pensante.

Per comprendere quale mondo si vada edificando grazie alle più recenti direttive governative suggerisco una riflessione intorno alle parole lungimiranti di Piero Calamandrei: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale”. Concordo assolutamente, ma Calamandrei faceva riferimento a una scuola che non si pensava in funzione ancillare nei confronti dell’impresa, quella alla quale rimandano le righe di Daniel Pennac in Diario di scuola: “Tutto il male che si dice della scuola fa dimenticare il numero di bambini che ha salvato dalle tare, dai pregiudizi, dall’ottusità, dall’ignoranza, dalla stupidità, dalla cupidigia, dall’immobilità o dal fatalismo delle famiglie”. Non credo sia onesto imputare alla visione della Heller, e così alla mia, una anacronistica idea dell’uomo avulso dalla realtà, certo, a qualcuno sarà tornato alla memoria il protagonista de “Il giuoco delle perle di vetro” di Herman Hesse, il dotto Knecht cresciuto nell’elitaria regione di Castalia ma ben presto disorientato dalla vita al di fuori delle meravigliose mura della cultura, ai più eruditi potrà apparire suggestivo che Knecht, come la Heller, il primo nel lago di Belpunt, la seconda nel Balaton troveranno la morte per annegamento, ma sarà una suggestione per pochi, soprattutto fra le nuove generazioni. No, non è questo il problema, spero che la riflessione di chi ha avuto la pazienza di leggere fino a queste righe si soffermi su quale realtà futura andiamo edificando, se ha ragione l’amico Martin Heidegger, quale significato stiamo passando alle nuove generazioni intorno a parole cardinali come scuola, cultura, uomo? Non rischiamo di trasformarle in apprendistato, operatività, produttore consumatore? Non è meglio per l’essere umano “un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose”?

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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