Archiviato

Morto in cella ad Albenga, il giudice chiude il caso: “Scalabrin deceduto per cause naturali, nessuna responsabilità”

Dopo un anno e mezzo di indagini è arrivata l'archiviazione: scagionati sia i carabinieri che i medici

Emanuele Scalabrin

Albenga. Morte per cause naturali, e nessuna responsabilità da parte di carabinieri e medici. Il giudice per le indagini preliminari Emilio Fois scrive la parola “fine” sulla triste vicenda di Emanuel Scalabrin, il 33enne albenganese deceduto il 5 dicembre 2020 nella camera di sicurezza della Compagnia dei Carabinieri di Albenga qualche ora dopo l’arresto durante un’operazione antidroga.

Fin da subito l’ipotesi era stata quella di una morte naturale, ma per escludere in modo inequivocabile la possibile esistenza di altre cause la magistratura aveva aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo. Le indagini vertevano su due possibili ipotesi. Da un lato presunte percosse subite dai carabinieri, come dichiarato da Paolo Pelusi, un amico arrestato insieme a Scalabrin: fin da subito però i sostituti procuratori della Repubblica Chiara Venturi ed Elisa Milocco non hanno trovato riscontri. In seconda battuta si era ipotizzato un possibile errore nella dose di metadone somministratagli all’ospedale Santa Corona la sera del suo arresto. L’uomo, infatti, durante quella notte in carcere, su richiesta degli stessi carabinieri, era stato visitato due volte, sia dalla guardia medica che dal pronto soccorso, perché aveva accusato i sintomi di una crisi di astinenza, e in ospedale gli era stato somministrato del metadone, medicinale per cui aveva la prescrizione.

Il giudice ha preso atto del fatto che l’autopsia non ha evidenziato alcuna lesione sul corpo di Scalabrin ma, al contrario, ha ricondotto il decesso a cause cardiache in un soggetto considerato già a rischio. Esclusa, quindi, qualsiasi correlazione tra quanto accaduto durante e dopo l’arresto e il successivo decesso, e di conseguenza ogni possibile responsabilità da parte dei militari, sia nelle fasi dell’arresto che nelle ore successive.

La famiglia, infatti, aveva puntato il dito anche contro l’irruzione nell’alloggio di Scalabrin da parte dei carabinieri. In occasione dell’arresto l’uomo si era opposto, divincolandosi e dibattendosi. I militari lo avevano quindi immobilizzato sul letto matrimoniale ma – hanno ricostruito gli inquirenti – senza alcuna violenza. Un intervento duro ma senza abusi, insomma. L’esatta dinamica è stata ricostruita anche grazie alla registrazione di una telefonata in corso in quel momento tra la compagna di Scalabrin e il figlio, nella quale si sentivano le voci dei carabinieri durante l’operazione ma nessun rumore di possibili violenze. E la stessa compagna, nella propria testimonianza, avrebbe confermato che la condotta dei carabinieri era stata proporzionata alla resistenza di Scalabrin.

Nessuna mancanza, infine, anche nelle ore successive: secondo il gip i carabinieri hanno correttamente monitorato l’arrestato all’interno della cella di sicurezza attraverso l’impianto di videosorveglianza, e non avevano la possibilità di accorgersi che l’uomo non fosse semplicemente addormentato.

Per tutte queste ragioni Fois ha deciso di archiviare il procedimento, ritenendo infondate le ipotesi di reato. La vicenda rischia comunque di avere ulteriori strascichi: i carabinieri, infatti, hanno a loro volta querelato la compagna di Scalabrin e l’amico arrestato con lui, che ora sono indagati per calunnia.

L’ARRESTO

L’arresto di Emanuele Scalabrin era avvenuto il 4 dicembre 2020 nell’ambito di un’operazione antidroga a cui avevano preso parte i carabinieri della Compagnia di Albenga. Il blitz, scattato a Ceriale, aveva portato all’arresto anche di una donna di 37 anni colta (insieme a Scalabrin) a cedere 80 grammi di eroina ad un 47enne di Savona. Le tre persone coinvolte erano poi state trasportate in caserma per i primi accertamenti. Ma nella notte tra il 4 e il 5 dicembre, mentre si trovava nella sua cella in attesa di essere trasferito nel carcere di Genova, Emanuele Scalabrin era deceduto nel sonno.

I PRIMI DUBBI (“SEGNI SUL CORPO”), SMENTITI DALL’AUTOPSIA

L’associazione genovese “Comunità San Benedetto al Porto”, fondata da don Andrea Gallo, attraverso i social avanzò diversi dubbi: “In questa terribile vicenda non si è neppure in grado di conoscere il momento in cui è avvenuta la sua morte. Molti sono i segni sul cadavere, che dovranno trovare una spiegazione, macchie ipostatiche? In varie parti del corpo? Sia sul viso che sul corpo? Sia nella parte anteriore sia nella parte posteriore del corpo?”.

Le prime risultanze dell’autopsia, disposta subito dopo la morte del 33enne ingauno, non lasciarono però alcun dubbio: Scalabrin era morto “per cause naturali”, un arresto cardiocircolatorio. E il suo corpo non riportava alcun segno di violenza. Una versione confermata ai giornali nei giorni successivi anche dal perito di parte nominato dalla famiglia. Proprio per escludere un “nuovo caso Cucchi”, inoltre, il pm Chiara Venturi appena giunto sul posto aveva immediatamente chiesto non solo un’ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto.

LE TELECAMERE

L’associazione aveva poi puntato il dito contro un altro aspetto: “Non è stato possibile stabilire il momento della morte, in quanto il sistema DVR era non funzionante, e quindi non era in realtà possibile monitorare lo stato di salute dei detenuti”. Il riferimento era all’impianto video che monitora la camera di sicurezza della caserma di Albenga e all’assenza di una registrazione dell’accaduto. L’impianto, però, come in molti scenari simili, non disponeva di alcun registratore: in questi casi la telecamera trasmette le immagini “live” su un monitor a disposizione del piantone, senza alcun collegamento con hard disk o altri tipi di memoria.

LA VISITA AL PRONTO SOCCORSO

Un altro punto controverso fu la visita al Pronto Soccorso: “Emanuel non stava bene e presentava sintomi morbosi – spiegava la Comunità San Benedetto al Porto – Dopo una visita di un’ora, la Guardia Medica chiede ai carabinieri che egli venga trasferito al pronto soccorso di Pietra per accertamenti sulle condizioni cliniche, avendo verificato che aveva la pressione alta e tachicardia. Qui la visita, se così si può dire, dura… 5 minuti, compreso il tempo di compilare la cartella clinica del paziente”. Il gip, dopo aver raccolto le varie testimonianze, ha stabilito che la visita era compatibile con i sintomi e con quanto riferito ai medici dallo stesso Scalabrin: accusava sintomi legati a una crisi di astinenza, e per questo si era recato in ospedale portando con sé una ricetta per avere del metadone.

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