La pallacanestro è uno sport meraviglioso, uno dei più seguiti in assoluto e capace di regalare emozioni ad ogni azione di gioco.
Nel territorio savonese ci sono piazze storicamente note, come Loano e Vado, ma anche tante altre come, per esempio, Finale e Alassio, dove la palla a spicchi è un modello di crescita ed inclusione: il minibasket sta portando alla luce i valori dello sport, insegnati sin dalla tenera età.
“Allenare i bambini è il massimo”. Questo lo dice una figura molto nota in zona, un vero e proprio maestro per i più piccoli e un “martello” per i più grandi: coach Carlos Daniel Pedrini, l’argentino dei palazzetti savonesi.
La sua storia è talmente interessante che merita un cenno. Nato a Casilda, in provincia di Santa Fe, e cresciuto a Rio Tercero, Pedrini iniziò a giocare a basket all’età di 5 anni nella squadra della sua città, arrivando a 20 anni a giocarsi la Serie A2. Tuttavia, come lui stesso ricorda, non fu un grande giocatore. Infatti, qualcuno della società gli consiglio di iniziare ad allenare i bambini per poter iniziare a svolgere un nuovo ruolo. Da quel momento cominciò il periodo di formazione del tecnico, ma già si vedeva la sua bravura: al Cultural Argentino, club nella città di General Pico, riuscì a portare a giocare 200 bambini, dai 6 con cui era partito.
Dopodiché vi furono ulteriori trasferimenti in altri club, ma il risultato fu sempre lo stesso: l’ormai ex cestista, nonostante la giovanissima età, sembrava avere un destino segnato.
Ma un giorno lui e la sua famiglia partirono alla volta dell’Italia, la terra di suo nonno, arrivando nella nostra regione. Qui Pedrini dovette riambientarsi nuovamente, a 46 anni, ma la voglia di fare pallacanestro era tanta: allenò contemporaneamente presso l’Albenga, il Loano, il Pietra e la Prima Squadra del Finale.
E quando ormai sembrava essersi ambientato nuovamente, Pedrini decise di accettare l’offerta dei Gigantes, una squadra messicana militante nella Serie A1, a Toluca. Lì stette due anni e poi tornò definitivamente nel nostro Paese, dove ora vive e allena a Cairo Montenotte, nel quale è riuscito a raggiungere il terzo posto in Promozione e ha contribuito alla creazione di una leva d’élite.
Insomma, una vita molto movimentata ma sempre con la sua indelebile passione: “Il basket è la mia vita, sono felice di essere riuscito a trasmettere a tanti il mio amore per questo sport. Quando avevo 19 anni, prima di fare il corso, allenavo già dei bambini per iniziare a capire il mestiere: è stata una grande esperienza per me perché, sin da quei primi allenamenti, mi sono reso conto di quanto sia bello cercare di fare del bene a chi vuole provare a raggiungere i propri sogni”.
L‘Italia è stata un’opportunità importante non solo per lui: “Dopo l’esperienza a General Pico, ho pensato di approfittare del fatto che la mia ex moglie avesse familiari lì per andarci a vivere. E così, avendo un nonno italiano, siamo riusciti a chiedere la cittadinanza: volevo dare un futuro migliore ai miei figli, non ho assolutamente pensato al basket”.
Infatti non è mancato lo scetticismo: “Una persona mi disse che in Liguria era impossibile fare pallacanestro, ma dopo due anni ho avuto la possibilità di allenare e ho provato a smentirla. Le strutture italiane sono perfette in confronto a quelle argentine, come l’organizzazione del materiale sociale. Quindi io credo che ci siano tante ottime possibilità per poter praticare al massimo questo sport”.
La pallacanestro per Pedrini è stata utile anche per lo studio della lingua: “Quando arrivavo a casa parlavo spagnolo, quando andavo in palestra sono stati i bambini a farmi imparare l’italiano: una lingua veramente difficile, ma se non la si impara qui diventa veramente dura”.
Sull’esperienza in Serie A1 messicana: “Avevo un contatto con un allenatore argentino e non ci ho pensato due volte. Mi sono ritrovato in un mondo nuovo per me. Per esempio, guardavo moltissimi video di giocatori americani che si proponevano a noi, per poi vedere se rispecchiassero davvero la realtà in palestra: noi potevamo avere cinque americani in squadra, tre in campo e due in panchina. Siamo riusciti a mettere in piedi una squadra da metà classifica, riuscendo a divertirmi e imparare ancora qualcosa”.
Aver viaggiato così tanto è stato fondamentale per la sua vita: “Ho potuto conoscere tantissime culture diverse, avendo possibilità di esprimere il mio pensiero basandomi su quello che ho appreso nei vari paesi. Per me, tuttavia, l’Italia resterà sempre casa mia”.
Come detto, per Pedrini allenare i più piccoli dà qualcosa in più: “Per me è il massimo. Ovviamente le esperienze con le Prime Squadre sono state veramente belle, ma allenare i bambini è un altro mondo perché riesci a seguire il giocatore sin dai primi passi. Per esempio, all’Independiente ho avuto modo di seguire quelli di Andrés Nocioni, che poi è riuscito ad arrivare in NBA e al Real Madrid, e a 18 anni era già alto 202, ormai un lontano ricordo di quando lo ebbi da piccolino. Mentre in Italia ebbi i due fratelli Cacace, Alberto e Giacomo, quando ero a Loano: che bel momento quando li ho visti indossare la maglia della Nazionale!”
Ma qual è precisamente la pallacanestro ideale di coach Pedrini? “Si basa sul fondamento del gioco stesso: chi sa fare tutto può andare ovunque e giocare con grande semplicità. In Argentina, grazie a questa filosofia, siamo arrivati ad avere 8 giocatori in NBA. Non è facile avere la giusta mentalità perché tutti dicono che i bambini si devono divertire, devono giocare: invece io dico diversamente, loro devono imparare”.
La situazione pandemica sta rendendo arduo lo svolgimento continuativo di attività sportive. Come si potrà superare questo periodo? “Non è facile. A Cairo abbiamo tanti bambini positivi e, essendo una città piccola, abbiamo poche cose da fare secondo me: vaccinarsi, stare sempre con la mascherina e avere fiducia in un cambiamento. Io mi auguro veramente che questo periodo difficile possa passare, andando poi a recuperare tutti quelli che hanno smesso di giocare, combattendo la paura e tornando tutti insieme in palestra”.