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Per un pensiero altro

Io è altro

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

Pensiero altro 27 ottobre 2021

“Je est (un) autre” è quanto scrive l’adolescente Arthur Rimbaud al suo professore Georges Izambard in una lettera del 13 maggio 1871. La traduzione in italiano è abbastanza intuitiva e rivela un “errore grammaticale” che tale non è, infatti sarebbe assolutamente fuorviante la versione ortodossa: “Io sono (un) altro”, ma non si tratta di una svista dovuta agli eccessi ai quali si consegnava l’artista, a quello che il giovane poeta definiva un sistematico deragliamento di tutti i sensi, al contrario, rivela una sottilissima e profonda proposta rivoluzionaria e la comprensione di un concetto che permeerà tutta la cultura filosofica, psicologica e artistica del XX secolo ancora da venire. Il tutto si esplicita nella più nota “Lettre du Voyant” (lettera del veggente) del 15 maggio successivo nella quale, scrivendo all’amico Paul Demeny, è chiaro il percorso dell’artista che si propone, appunto, come “veggente”. Per cogliere la portata dell’auto definizione rimbaudiana, è indispensabile comprendere che il giovanissimo artista non si pensa d’annunzianamente come “il soggetto vate”, tragicamente e/o orgogliosamente consapevole di essere colui che vede ciò che gli altri non sanno vedere, ma suggerisce la scomparsa dell’io, la sua dissoluzione, il lasciarsi inghiottire dallo sguardo dell’abisso che ci abita, per dirla con le illuminanti parole di Nietzsche.

La messa tra parentesi, che si legge sia nel testo francese che nella traduzione, è una mia scelta in quanto sostengo che ciò che afferma il “poeta maledetto” non è una sorta di avvertimento di un altro sé al proprio fianco, oppure la presa di coscienza di di uno sdoppiamento psichico che lo abita, in quel caso potremmo elencare diversi esempi letterari di Doppelanger, per ricorrere all’espressione coniata da Richter (pseudonimo Jean Paul) in riferimento a “colui che ci cammina a fianco”, o a un dualismo reso celebre da Stevenson con il suo Jekyll, argomenti che hanno accompagnato grandi esempi letterari coevi e successivi, basti pensare al Dorian Gray di Wilde, alle maschere pirandelliane per finire con il Visconte dimezzato di Calvino. Rimbaud, sostengo in conseguenza a quanto esprime il complesso della sua poetica, non si riferisce al doppio con il quale conviviamo, a quella frattura che tanta ricerca contemporanea ha ricondotto alla biologia del nostro cervello diviso in due emisferi preposti a due ambiti e a due competenze diverse. Nelle parole di Rimbaud si fa più chiara la differenza formidabile tra affermare che “io sono un altro”, cioè io, soggetto consapevole e unitario, avverto il mio divenire altro da me in taluni momenti e circostanze, e sostenere che “io è altro”, cioè negare l’unitarietà coscienziale di un soggetto che permane anche nella consapevolezza di essere altro e altrove. Forse l’unico esempio che gli si può accostare in ambito letterario è il pirandelliano Vitangelo Moscarda frantumato nei centomila sé che lo rendono nessuno cancellando l’io.

Suggestiva l’espressione di Freud per il quale l’io “non è padrone in casa propria” che rivela il disorientamento dell’io che ha perso se stesso e si riconosce e si nega incontrandosi in una “casa propria” trasformata in un labirinto di specchi che gli restituisce un’immagine di sé ogni volta diversa eppure famigliare. Interessante precisare che, se nel labirinto di specchi continuo a chiedermi chi sono dei vari riflessi, permane il soggetto, io sono “colui che si interroga”, in quel modo, però, rinuncio alla possibilità di sapermi nell’infinito mutarsi dei riflessi, in caso contrario in quegli stessi mi perderei. Ci torna alla memoria il sonetto baudelaireiano “Correspondances” dove “il tempio che è la natura ci osserva con sguardi famigliari che ci svelano la frantumazione dell’essere che siamo”, ma la frantumazione non è “rivelata ad un soggetto che la può comprendere”, è il soggetto stesso che scompare per divenire alterità. La risposta di Rimbaud, al silenzioso quesito che questa sorta di “assedio interiore” pone ad un soggetto che non esiste più, è di natura poetica, è il passaggio da una poesia soggettiva ad una radicale trasformazione dell’artista che, fattosi veggente, diviene una rivoluzionaria valle dell’eco capace di dare voce all’essere che lo visita, se io è altro sarà altro a parlare attraverso le mie righe, da qui l’itinerario auto distruttivo del deragliamento dei sensi, dei paradisi artificiali, della droga e dell’alcool, una accelerazione nella corsa verso l’abisso per lasciarsi inghiottire. Itinerario pericoloso che ha condotto dalla maledizione alla morte un’intera generazione di giovani poeti ribelli e che spesso origina tristi epigoni ancora oggi poiché può il genio consegnarsi all’abisso, ma nessuna autodistruzione potrà mai generare un genio da un mediocre.

È tempo di mettere termine a questa brevissima e spericolata scorribanda tra “gli orrori e le meraviglie dell’abisso Rimbaud”, poeta che tanto ho amato negli anni dell’adolescenza convinto di condividere le sofferenze della sua “stagione all’inferno”, certo di essere un meraviglioso poeta maledetto circondato da inconsapevoli torturatori incapaci di accettare la splendida luce che mi abitava … chi non è stato adolescente!? Torniamo ad oggi: molto più umilmente provo, nei limiti dello spazio e delle mie capacità, a suggerire una visione più ottimistica alla tragica consapevolezza del poète maudit pur condividendone ancora profondamente l’assunto iniziale: io è altro. Va detto che, per certi versi, lo stesso Rimbaud sostiene la possibilità del verso, della parola, capace di divenire “oggettiva espressione dell’essere”. In questa prospettiva il cuore della questione lo incontriamo nella “scoperta” della parola, o meglio, nella sua resurrezione dalle ceneri della volgarizzazione che la consuma fino a renderla “una cosa in un mondo di cose” poiché “l’uomo è l’animale capace alla parola! È la parola che ci distingue dal tutto o, forse meglio, dal nulla.” Prima della parola nulla è, l’essere nella sua monoliticità non è né diviene, il suo permanere lo rende “essere che è nulla”. È con l’insorgere della parola che l’uomo, rendendosi creatore, noma e determina ciò che si scopre come particolare.

Rimando al bel saggio di Mario Perniola “L’estetica del 900” ed all’illuminante “Il perturbante” di Sigmund Freud per più precisi approfondimenti, mi limito a una traiettoria critica che mi sembra il più conseguente sviluppo di quanto sostenuto fin ora affermando che il linguaggio non ci viene dato ma ci possiede. Sintesi estrema e forse apparentemente criptica. In punta di piedi calco le orme di Heidegger “In cammino verso il linguaggio” riconoscendo nella parola, che incontriamo già data, l’elemento mediatore tra l’essere che in essa sola può disvelarsi e il soggetto che con essa si riconosce. É proprio nell’incontro inatteso che avviene improvviso, come l’aprirsi di una radura luminosa nell’oscurità di un bosco, che si avverte il piacere peculiare all’uomo dell’essere capace alla filosofia, alla poesia, alla letteratura, alla creazione artistica, alla vita ed alla più semplice pragmaticità del quotidiano, insomma il piacere di essere “l’animale capace alla parola”. Se esiste la parola libertà è perché l’uomo l’ha incontrata nell’essere e l’ha resa se stessa nomandola e contemporaneamente assegnando a sé il ruolo di chi è capace al concetto di libertà per dirigersi verso di lei ed esserne abitato. Ed è ancora nell’incantata radura, che troppo raramente ci diamo modo di visitare, che nasce la consapevolezza che “all’appuntamento al buio” sono pervenuti due estranei che si conoscono solo accettando di non sapersi se non come perenne dialettica che non può dare riferimenti certi e che, negandoti costantemente, ti rivela a te stesso per comprendere la profondità dell’affermazione di Rimbaud: io è altro.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero.
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