Nel 1982 probabilmente non portavo il reggipetto. Ai miei genitori facevo credere che fosse per ribellione, la realtà era che non ne avevo bisogno, la gravità non aveva ancora intaccato il mio corpo, e le magliette bianche fruit of the loom col nodo sulla pancia stavano sicuramente meglio con le poppe nude.
Sicuramente quella sera nella fontana, quando mi sei piovuto addosso, Fausto, come sputato dallo squalo, non lo indossavo.
“Com’è che ti chiami?”
“Medea!”
“E che nome è?”
“Ma niente, mio padre è fissato con la mitologia!”
“Io Fausto!”
“Fausto? Papà amante di Goethe?”
“Ma no, Fausto come Fausto Coppi!”
Avevi ragione, Fausto. Che cavolo di nome Medea per la figlia di un operaio di Galatina emigrato a Savona, che cavolo di nome per una poveretta cresciuta a pasta , broccoli e schiaffoni, che cavolo di nome per una studentessa del Classico che ha sentito il proprio padre bestemmiare con la testa tra le mani in cucina,perché non poteva permettersi di comprarmi il Rocci, che cavolo di nome Medea per un essere insignificante come me.
Ma quella sera non te ne è importato, Fausto, nella fontana bagnato e magro come un insetto stecco , te ne stavi con le labbra viola dal freddo e il ciuffo che ti copriva un occhio blu. L’altro occhio mi fissava le poppe, Fausto, ma ho fatto finta di non notarlo.
Gridavi “Italia! Italia!!” ma le ultime vocali ce le siamo gridate in bocca, Fausto, una A lunghissima , un grido di sollievo e dolore, un coltello rovente che passa nel burro e apre una strada tra laringe, esofago e cuore.
E quella strada dentro di me è sempre stata solo tua. Nostra. In quei lunedì seduti sul cordolo della fontana a confonderci le lingue e la pelle, con la tua fame dei miei occhi e i tuoi occhi sempre sulle mie poppe.
E lo scrosciare incessante dell’acqua a coprire i “Ti amo” e lo squalo e il ragazzo che guardavano complici mentre Savona cambiava velocemente. E io con lei.
L’eroina è stata un vortice, Fausto. Un doloroso sollievo per Medea, figlia di emigrati col Rocci sottobraccio, inadeguata, incapace, insignificante.
Tu non capivi e mi scuotevi dalle mie pozze di vomito e piscio negli angoli puzzolenti di via Quarda, io venivo con te e ti mentivo. Mi ripulivi, mi davi da mangiare e io ti lasciavo all’alba, nel letto con le lenzuola azzurre che tua mamma inamidava fino a farle sembrare di zucchero, ti rubavo denaro, gioielli e ti lasciavo la mia dignità e qualche cicatrice sul cuore.
Ti spiavo da lontano, Fausto, come un fantasma senza corpo e senza volontà ti seguivo e ti vedevo vivere, sotto alla fontana , ti vedevo aspettarmi, ti vedevo crescere.
E poi la fontana ha perso vita, ha smesso di scrosciare e zampillare. Lo squalo si è immobilizzato in un tempo sospeso e secco, il ragazzo ha smesso di guardarci da lontano. E io non ti ho visto più. Per anni.
Ma oggi, oggi dicono che l’acqua tornerà e ti vengo a cercare .
“Fausto, sei tu?”
“Sono io. Come Goethe.”
“O come Coppi?”
Fausto, un ciuffo bianco a coprire un occhio blu e l’altro occhio sulle mie poppe.
Ed ecco , di nuovo, l’acqua.
“Rosso Pistacchio” è la rubrica di Marzia Pistacchio, che ama definirsi “una truccatrice struccata”. Ogni martedì uno spazio dal taglio volutamente “leggero” con i suoi racconti, nati su IVG e poi diventati un libro. Clicca qui per leggere tutti gli articoli