Savona. “Sono ormai rientrato a casa da una dozzina di giorni e sto lavorando con la fisioterapista per la riabilitazione, dopo il ricovero per Covid 19 a cui IVG ha prestato cortesemente la sua attenzione. In quell’occasione avevo ringraziato il dr. Anselmo per il suo lavoro sia con i malati sia con il personale sanitario ai vari livelli, ma anche tutti indistintamente. Oggi desidero raccontarvi, in relazione a quanto vissuto nelle tre settimane di ospedalizzazione, che il mio grazie a loro non è solo sentimentale, emozionale e non certo legato ad un bisogno esibizionistico”. E’ la testimonianza inviata a IVG da Gianfranco Ricci, di cui lo scorso 10 marzo avevano pubblicato il ringraziamento ai medici proprio durante il suo ricovero.
Il professor Ricci è molto noto in città sia per la sua attività politica (è stato consigliere comunale) che per quella culturale. Professore associato di Pedagogia Speciale, Dipartimento Scienze della Formazione, e Docente di Educazione Interculturale presso l’Università di Genova, dove ha diretto il Dipartimento di Studi sulla Storia del Pensiero Europeo e presieduto il corso di laurea in Scienza dell’Educazione, è da sempre impegnato nel campo della interculturalità ed integrazione sociale. E’ stato inoltre amministratore della Fondazione De Mari. Nel 2017 ha vinto il “Premio Nitti per il Mediterraneo”. Di seguito la sua testimonianza.
Da anni aderisco agli “Amici del San Paolo”, una rete di persone, guidate dall’ottimo Giampiero Storti, che operano perché l’Ospedale Provinciale sia sempre più all’altezza del suo compito che non è solo istituzionale, ma è legato ad una evidente convinzione: la qualità della sanità è legata alla qualità della vita di un dato territorio. Tanto è stato fatto e tanto è ancora da fare. E per anni mi sono occupato di bisogni e servizi educativi in ambiente ospedaliero soprattutto in età infantile e pertanto aderisco con piena convinzione a Cresc.i, dove il carissimo Amnon Cohen, seppure da fuori ruolo, segue e sprona l’associazione che si occupa del sostegno della Pediatria del San Paolo.
In relazione a questi miei interessi la degenza è stata occasione per osservare durante la degenza quanto mi accadeva attorno: l’operare continuo di tutto il personale, l’organizzazione dei ritmi di lavoro a volte in affanno per le emergenze (emergenze che ormai durano da più di un anno per il tutto il reparto), ma pur sempre al di sopra di un livello medio alto e sempre comunque teso verso il massimo. Un personale che non si cura di fare performances, ma di fare bene ciò che c’è da fare, con naturalezza, professionalità ed accortezza umana. Dare il meglio inteso come ricerca di fare notizia e record non mi interessa e tutto sommato mi avrebbe preoccupato; vedevo invece un lavoro tranquillo, sereno, di squadra. Ovvio che con numeri così ampi di personale sanitario, non tutti con la stessa formazione ed esperienza, non possono essere tutti delle super women e dei super men, non sono tutte delle Montessori e dei dottor Sabin, ma tutti danno il massimo di quel che possono. Il livello è senz’altro ottimo nell’insieme e non solo perché spesso le immagini dei social di casa d’altri sono inquietanti.
E poi ci siamo noi malati covidizzati con le nostre paure, ansie, fragilità, con le proprie “ciascunerie”, ci siamo noi che rappresentiamo numeri amplissimi ed in aumento, come in questi giorni, ci siamo noi che nell’uscire da casa per essere ricoverati, non abbiamo la tranquilla speranza di ritornarvi. Quegli automezzi militari negli occhi, ma soprattutto nel cuore continuano a bussare alla nostra ragione ed a farci a volte sragionare. Che fatica, che pena, che imbarazzo essere lavati, puliti e ripuliti più volte nella giornata, rimessi in ordine; a volte una stretta di una mano super inguantata al braccio, una lieve carezza, una parola sussurrata soprattutto di notte; quando il buio rende meno plateali le proprie difficoltà e si crea un momento di maggiore intimità con il personale che ti sta accanto sembra di sentire qualcuno di famiglia, forse la mamma. E sì perché chiamare la mamma, sentirne la voce è un po’ come ritornare protetti nel suo pancione. E poi tra le “ciascunerie” ci sono anche meschinità come le richieste di aiuto per un nonnulla, anche perché in quel contesto è facile che tutto si ingigantisca ed il personale che cura è costretto a fronteggiare richieste legittime e puntigliosità eccessive. Tutti vorremo il meglio, pochi si accontentano di quel che hanno.
Il personale (rifiuto ogni definizione buonista e quindi eccessiva di angelo, di eroe, ecc. non perché non lo siano, ma perché loro sono persone come tutti gli altri, con la loro storia, le loro paure, le ansie di portare il contagio in famiglia). Con quelle utilissime vesti, mascherine doppie, visiere, che rendono anonime le persone che ti stanno attorno. Dopo un po’ le riconosci da come ti si avvicinano, da come ti misurano la saturazione, da come ti puliscono, se solo con professionalità oppure se con rispettosa e solerte attenzione e delicatezza. Anche le situazioni più difficili possono diventare dei momenti di condivisione, di riconoscimento, di scambio, di gratitudine. Quanti scusi, grazie prego detti, sentiti e riconosciuti come soffi di aiuto a vivere meglio la difficoltà.
E poi…. ma qui mi fermo perché avrei desiderio di mettervi a parte di quello che si vive nel periodo della prova, quando il vicino di letto viene meno e si alza il paravento, quando una delle persone di questo straordinario staff di fronte ad un malato che “spegne il suo spirito”, guardandosi attorno per pudore di essere visto, fa con la mano un segno di croce per me, che guardavo da curioso qual sono facendo finta di dormire, il valore di una benedizione per dirgli che il suo andare sia leggero, sicuro verso la luce non abbagliante, ma rasserenante dell’ aldilà. Sono grato a quell’operatore sanitario perché a me ha dato la forza di recitare un “eterno riposo” e di sussurrare buon viaggio a quel mio vicino che riprendeva, se pure in altra forma, il suo cammino di viandante, come siano tutti noi. Viandanti verso la casa del Padre.
Finalmente ho detto pubblicamente quanto mi ha albergato per settimane nel cuore, per merito di una persona irriconoscibile per come era vestito. Ieri i monatti erano coloro che portavano via i morti, ora questi monatti di bianco/azzurro vestiti cercano con tutte le loro forze di riportare i malati alla vita quotidiana. Grazie a tutti, da Marco Anselmo a tutti gli altri nessuno escluso, grazie per avermi fatto sentire sempre persona fra persone.