“Padre ho peccato contro Dio e contro di te, non merito di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi servi”. Molti avranno riconosciuto un passo tratto dalla parabola del figliol prodigo contenuta nella trilogia del Vangelo di Luca con la parabola della pecora smarrita e quella della moneta smarrita accomunate dal messaggio di gioia per il ritrovamento di qualcosa o qualcuno che si temeva essere perduto a noi per sempre. Interessanti i dibattiti, poiché nel vangelo non è esplicitato il titolo della parabola, intorno al fatto che sarebbe più opportuno centrare lo stesso sulla figura del padre misericordioso, ma mantengo la vulgata popolare lasciando la disputa ai teologi ed agli esegeti evangelici, non è di questo che tratta il nostro incontro di oggi. La ragione dell’incipit sta nel fatto che numerosi argomentati messaggi, in relazione allo scorso articolo sul perdono, mi hanno indotto a riflettere su alcuni aspetti della questione. Le osservazioni sono state diverse e tutte stimolanti, nelle varie sfaccettature, però, mi è sembrato riconoscibile un interrogativo comune: ma se chi ha fatto del male a me lo ha fatto deliberatamente è giusto perdonarlo ugualmente? Ed è comunque, per tornare all’affermazione gershomiana, più difficile perdonare la persona alla quale ho fatto del male che non quella che lo ha fatto a me?
Provo a chiarire il senso dell’incipit evangelico: la parabola di Cristo racconta di un padre che aveva due figli, il primogenito che lo ubbidiva e che lavorava per lui, il secondo che, pretesa in anticipo la propria eredità, se ne era andato per il mondo sperperandola in libagioni e incontri lussuriosi. Solo una volta esauriti i doni paterni, dopo un breve periodo di lavoro, stagione nel corso della quale si risolve a tornare dal padre, medita di chiedere perdono con queste parole: “Padre ho peccato contro Dio e contro di te, non merito di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi servi”, ma il padre subito lo abbraccia ed organizza per lui una grande festa sacrificando anche il “vitello grasso”. Ricordo che da bambino trovai il comportamento del padre molto bello ma compresi anche la reazione del primogenito che lamentava di non aver mai ricevuto nulla per il suo corretto comportamento ed ora doveva assistere alla festa per il fratello che si era comportato sempre male. Nemmeno il commento conclusivo del padre che affermava essere bene la festa poiché “tuo fratello era morto ed è tornato in vita” mi convinse del tutto, ma il prete del mio oratorio cercò di chiarire il concetto che, per dirla tutta, compresi nel suo messaggio teologico solo più tardi. Avevo un dubbio, fastidioso, non mi sembrava del tutto equo l’agire del padre! Approfondii e incontrai le diverse interpretazioni: quella teologica che celebra il peccatore che si redime fino a meritare il perdono divino, quella storica che descrive il cambiamento prospettico tra il Vecchio ed il Nuovo testamento, quella riconducibile ad Henri Denis che riconosce nel figlio prodigo l’azione sacrificale di Gesù e nel fratello l’incapacità del popolo ebraico di riconoscerne la divinità. Ebbene, ancora oggi sono convinto che ciò che poteva lecitamente aver senso in una prospettiva divina molto meno era comprensibile nella percezione molto più terrena del primogenito.
Possiamo ora riprendere il discorso suggerito dalle diverse considerazioni di attenti e critici lettori: il figliol prodigo sapeva di comportarsi male? Ne era consapevole e ha continuato a farlo? Ha chiesto perdono, è sufficiente? Il padre non ha fatto fatica a concedergli il proprio, il fratello molto meno: chi dei due ha subito il torto maggiore? Premetto che sto deliberatamente abbandonando l’ambito religioso per passare a quello assolutamente mondano. La mia formazione filosofica, come quella di quasi tutti in occidente, ha radici socratiche e sappiamo che il filosofo greco sosteneva che “Nessuno compie il male volontariamente” ma solo perché non capisce, chi utilizza correttamente la ragione non può fare del male,! Questo ci riporta ancora una volta alle parole del Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” dando per già elargito il proprio perdono. Mi piace riportare altre due citazioni, certo, non divine, ma di personaggi considerevoli. La prima è di Oscar Wilde: “Perdona sempre i tuoi nemici. Nulla li fa arrabbiare di più”; l’altra di Piero Calamandrei: “Talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo”. Ma non possiamo in questa sede allargare eccessivamente l’orizzonte della riflessione, mi sembra che un aspetto importante possa essere legato ai concetti di vendetta e di giustizia.
Intanto va precisato che dobbiamo partire dal presupposto che stiamo parlando di chi fa del male scientemente, insomma: i vari Hitler Stalin e tutta la lunga serie di criminali responsabili di genocidio sono da perdonare perché erano convinti di agire in nome di un valore più alto, perché non si rendevano conto di quanto fossero folli o non meritano nessun perdono? Già temo i distinguo tra i sostenitori dell’una o dell’altra fazione, allora abbandoniamo questo terreno minato. Siamo capaci di affermare che il cattivo è già sufficientemente punito dal dover vivere con se stesso e che poco cambia il mio perdono ma se lo elargisco questo fa star meglio me? E se il soggetto che ha fatto il torto sono io è davvero così faticoso perdonare chi lo ha subito come sostiene il mio amico Gershom? Ho sentito spesso predicare il “porgi l’altra guancia”, ma lo hanno sempre suggerito quelli che non erano i proprietari della guancia; anche l’affermazione che la miglior vendetta è il perdono è solitamente proposta da chi la sostiene parlando con chi il torto l’ha subito e non per averlo sperimentato di persona; interessante la prospettiva di Henrich Heine che afferma: “Dovremmo perdonare i nostri nemici, ma non prima che vengano impiccati”.
Una coppia di personaggi manzoniani ci può aiutare per arrivare a una qualche conclusione, sempre provvisoria, ovviamente: mi riferisco a Lucia Mondella e all’Innominato. Li ho sempre trovati funzionalmente letterari, non plausibili e molto manichei. L’Innominato, così assolutamente cattivo ma abitato da una sublime santità, ma soprattutto Lucia che, adolescente innamorata e, è lecito presumere, ormonalmente ben predisposta, che, a un passo dal traguardo coniugale, subisce il rapimento e, imprigionata, non solo prega per l’anima del suo aguzzino ma si impone il voto della castità. Nessuno di noi è divino, siamo esseri umani, facciamo fatica a sopportare un dolore inflittoci, soprattutto se ingiustamente, figuriamoci pregare per il colpevole di tanto male. Ma da qui al rancore, alla vendetta … per dirla con le parole del Mahatma Gandhi: “Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco”. La situazione descritta nei Promessi sposi è assolutamente paradossale, e meno male che fra Cristoforo ci mette una pezza per il bene di Lorenzo e, mi auguro, di Lucia, ma anche in quel caso era già stata tracciata una linea a priori tra il bene ed il male, una ferrea demarcazione, senza comprendere che il tempo la modifica e modella incessantemente, con la quale giudicare, ed allora forse la questione più rilevante diventa la smania di giudizio spesso esercitata da chi nemmeno è parte del torto fatto o subito, ma opera di quegli spettatori della vita che, non sapendola vivere hanno due sole opzioni: o incontrano un terapeuta davvero efficace o vanno giudicando e radicando rancore così che poi, accecati, possano abitare tranquilli nel mondo divenuto cieco.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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