Per un pensiero altro

I topi buzzatiani

"Per un Pensiero Altro" è la rubrica filosofica di IVG: ogni mercoledì, partendo da frasi e citazioni, tracce per "itinerari alternativi"

Pensiero Altro 29 aprile

“Che ne è degli amici Corio? Che sta accadendo nella loro vecchia villa di campagna, detta la Doganella? Da tempo immemorabile ogni estate mi invitavano per qualche settimana. Quest’anno per la prima volta no. Giovanni mi ha scritto poche righe per scusarsi. Una lettera curiosa, che allude in forma vaga a difficoltà o a dispiaceri familiari; e che non spiega niente.” Si tratta dell’incipit di un racconto di un grande giornalista e scrittore italiano, Dino Buzzati, troppo frettolosamente etichettato come “il Kafka italiano”. Certo, una sorta di apprezzamento, ma anche un modo per non andare a ricercare l’originalità, le peculiarità, le intuizioni inquietanti di un maestro della nostra letteratura del 900. Interessante, a mio avviso, sarebbe studiare comparativamente la sua attività di scrittore e quella di pittore, ricordo la rappresentazione del mito di Orfeo ed Euridice in “Poema a fumetti”, un piccolo capolavoro sia nella rivisitazione scritta che nell’iconografia, ma è il momento, come sempre, di far seguire ad una apertura, che in questo caso avrei voluto potesse essere più ampia per meglio rendere omaggio all’opera dell’autore che cito, il tentativo di raccogliere il testimone ed inoltrarmi per un itinerario indiziario che proverà ad accompagnare il lettore lungo un percorso suggerito da “un pensiero altro”.

Il racconto narra di una famiglia, i Corio, che vivevano in una graziosa casa di campagna, gente semplice e ospitale. Giovanni Corio accoglieva l’amico, che ora racconta l’accaduto, ogni estate per una vacanza, ma quell’anno aveva “difficoltà”; “dispiaceri familiari”. Senza precisarne la natura si era visto costretto a comunicare la propria impossibilità ad ospitarlo per la prossima estate. Per la verità il narratore aveva già, in occasione di precedenti vacanze, tentato di affrontare l’argomento della presenza di piccoli roditori nell’abitazione, ma entrambe i coniugi Corio avevano cercato palesemente di evitare il discorso e lui, da buon amico e cortese ospite, si era limitato al silenzio. L’arte delicatamente quotidiana della narrazione buzzatiana è efficacissima, tratteggia un crescendo d’angoscia che coinvolge, con assurda pacatezza, l’intera famiglia. Oltre ai due coniugi, infatti, vivevano nella casa anche i genitori ed i figli. Il nodo intorno al quale si aggroviglia la vicenda è: c’è un problema ma non se ne deve parlare! Tutti rispettosamente si attengono al copione mentre i topi crescono di numero e di dimensione. I Corio tentano qualche intervento ma senza mai ammettere le loro difficoltà, quasi che fosse sconveniente, quasi fosse una loro colpa la presenza dei roditori nell’abitazione. Ad un certo punto il problema sembra risolversi, le minacciose bestiole che erano oramai tanto forti e numerose da aver eliminato due grossi gatti cacciatori, si vanno a concentrare in una zona sotterranea della casa e da lì, pur continuando a proliferare, sembrano essere divenute inoffensive, insomma, “tutto normale”, infine, finalmente “tutto sotto controllo”.

È tipico della letteratura di Buzzati narrare vicende apparentemente banali, come una casa di campagna con qualche difficoltà per la presenza di topi, rivelandone aspetti che mi permetto di definire metafisici nell’ottica della pittura di De Chirico. Quanto può essere inquietante la fragile ombra di una bimba che gioca col cerchio, mi riferisco a “Mistero e malinconia di una strada”, quando in una piazza comune appare anche solo in lontananza un’ombra nella solitudine dell’evento. Allo stesso modo i topi sono l’immagine silenziosa e torbida di un segreto, di una paura, una angoscia intima che si vuole negare, la consapevolezza di una colpa, chissà, forse di una vigliacca fuga davanti alla vita. Il lento suicidio dei Corio rappresenta la rinuncia alla vita, consuetudine, a mio modo di vedere, tanto diffusa nel nostro quotidiano. Quante volte abbiamo rinunciato ad un sogno, ad un amore, ad una passione, ad un’idea? Quante volte solo per paura del giudizio altrui, del rischio di non essere accettati, del terrore dell’emarginazione. Ma non sarebbe stato più liberatorio mentire al mondo piuttosto che a se stessi? Perché è lecito se non addirittura encomiabile mentire alla stupidità di chi si sente depositario di verità incontrovertibili, lecito se non addirittura doveroso mentire a chi vuole spiare con il piacere di chi non sa vivere e osserva dal buco della serratura le vite degli altri, per poi condannarne i comportamenti solo perché lui stesso se li vieta per vigliaccheria. Già, i peggiori censori sono proprio quei frustrati che vorrebbero ma non hanno fegato ed allora censurano e condannano chi invece il coraggio lo sa dimostrare. Ma davvero è necessario rendere partecipe chi giudicherebbe negativamente ciò che stiamo vivendo? È questo il topo che racconta Buzzati? Non credo, il vero maledetto roditore che ti consuma l’anima è la menzogna che hai raccontato a te stesso per giustificare la tua rinuncia alla vita. Non ci saranno trappole o chimici disinfestatori che potranno salvarti, non puoi nasconderti a te stesso. Ed allora menti al mondo vigliacco con gioia ed orgoglio, nascondi la luce che ti abita a chi ne sarebbe o accecato o invidioso, ma non rinunciarci mai.

Giovanni Corio e signora hanno nascosto agli altri il loro travaglio fino a non riuscire più a liberarsene, fino a divenirne prigionieri e schiavi, ma l’ulteriore tragedia è stata l’aver trascinato con loro tutta la famiglia. Chi si presta ad un simile assurdo, infatti, affonda con sé il sistema in cui vive, ne conferma la mediocre supponenza mettendo in scena quell’insieme di educate falsità che regolano la vita comune. Ed ecco che tutti partecipano ad una scombinata commedia dell’autoinganno in cui vince chi perde più inconsapevolmente, magari sorridendo orgoglioso del plauso generale, dell’apprezzamento di chi, rinunciando alla vita esattamente come te, non è nemmeno riuscito a credere di essere vero rimanendo nel limbo della rinuncia. Tutti sconfitti, tutti ai margini della vita, quelli che si compiacciono e quelli che applaudono, ma c’è qualcuno che sorride ed è felice dentro, qualcuno che ha avuto il coraggio di vivere senza bisogno del permesso del mondo, qualcuno che di certo non farà la triste fine della famiglia Corio. Già, perché l’epilogo del racconto è illuminante. Il narratore dichiara di non aver più avuto notizie degli amici e di non aver osato raggiungerli visto il loro cortese invito a non farlo, ma anche di essersi comunque informato sulle loro condizioni così da aver avuto strane e contrastanti notizie al riguardo. Addirittura si dice che … “Un contadino che si è avvicinato – ma non molto perché sulla soglia della villa stava una dozzina di bestiacce in atteggiamento minaccioso – dice di aver intravisto la signora Elena Corio, la moglie del mio amico, quella dolce e amabile creatura. Era in cucina, accanto al fuoco, vestita come una pezzente; e rimestava in un immenso calderone, mentre intorno grappoli fetidi di topi la incitavano, avidi di cibo. Sembrava stanchissima ed afflitta. Come scorse l’uomo che guardava, gli fece con le mani un gesto sconsolato, quasi volesse dire: ” Non datevi pensiero, è troppo tardi. Per noi non ci sono più speranze “.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero.
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