Nera-mente

Storia di un’efferata vendetta: il Canaro della Magliana

"Nera-Mente" è la rubrica di Alice, appassionata di criminologia

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Questa è una storia che i più sensibili dovrebbero evitare di leggere. Una storia tutta italiana, che ha come sfondo la nostra capitale. Un racconto che sarebbe raccapricciante persino per i manuali di criminologia.

Ci troviamo, appunto, a Roma, nel 1988. Più precisamente in via della Magliana (zona già famosa per via dell’omonima banda), nel quartiere Portuense, al civico 253 L. Nel luogo in cui oggi le serrande sono tirate giù, avvolte da un silenzio tombale, negli anni ottanta vi era un negozio di toelettatura per cani. Apparteneva a Pietro De Negri, un uomo piccolo, magro e, a detta di tutti, dai modi gentili e per bene, anche se avvezzo alla criminalità per rapine e droga. Un uomo che prese il soprannome di “Canaro”, per via del mestiere che svolgeva.

De Negri da un po’ di tempo era entrato “in affari” con un ex pugile dilettante, Giancarlo Ricci, con il quale aveva instaurato un particolare rapporto di amore e odio. I due erano stati complici in una rapina a seguito della quale il primo fu arrestato, mentre il secondo ne dilapidava il bottino, che avrebbero dovuto spartirsi . Ma la nota dolente che caratterizzò la loro frequentazione furono le vessazioni che il Canaro subì da parte di Ricci per anni. Quest’ultimo, infatti, gli forniva la droga imponendogli forti tangenti, oltre a renderlo vittima di continue angherie, ingiurie e minacce. Il Canaro aveva subito le violenze di Ricci fin da quando quest’ultimo gli aveva rubato uno stereo, pretendendo poi duecentomila lire per restituirglielo.

Il 18 febbraio del 1988 De Negri attirò Ricci nel suo negozio, con la scusa di rapinare uno spacciatore di cocaina che li stava aspettando. Lo convinse poi a nascondersi in una gabbia per cani, facendogli in qualche modo intendere che questo faceva parte del piano. Ma l’uomo, grande e grosso almeno il doppio del Canaro, in questa gabbia fu rinchiuso. E dalle ore 15 di quel giorno, per sette ore di fila, venne torturato con modalità atroci.

Dapprima il Canaro gli incendiò il volto con la benzina, poi lo stordì con una bastonata.

Stando alla versione di De Negri, dopo aver alzato il volume dello stereo al massimo per coprire le grida, forte del fatto che lo faceva abitualmente per ascoltare la musica, estrasse il Ricci dalla gabbia e lo legò ad un tavolo, amputandogli pollici ed indici di entrambe le mani con delle tronchesine. Cauterizzate le ferite bruciandole con la benzina, di modo che la vittima non morisse troppo in fretta per dissanguamento, De Negri iniziò a schernire Ricci, nel frattempo rinvenuto, e intorno alle 16 si concesse anche il tempo di andare a riprendere la figlia a scuola per condurla a casa, da sua madre.

All’apice della tortura, sempre secondo la versione dell’omicida, mutilò l’ex pugile di naso, orecchie e, infine, della lingua e dei genitali. Poi introdusse le parti amputate nella bocca di Ricci aiutandosi con una tenaglia e provocandone la morte per asfissia. Si accanì poi sul cadavere, rompendogli i denti a martellate, infilandogli le dita recise nell’ano e negli occhi, aprendogli infine la scatola cranica per “lavargli il cervello con lo shampoo per cani”.

Intorno alle 22, De Negri decise di sbarazzarsi del corpo: dopo averlo avvolto in un sacco di plastica, lo trasportò in auto fino ad una discarica in zona, dove lo cosparse di benzina e lo incendiò, assicurandosi di lasciarne intatti i polpastrelli per garantirne l’identificazione.

Cosa che avvenne ben presto: ciò che restava del corpo di Ricci fu rinvenuto la mattina seguente. E non fu difficile, per gli inquirenti, arrivare al Canaro. In un primo momento, le indagini si indirizzarono verso un regolamento di conti nell’ambito della malavita. Poi però subentrò la testimonianza di un amico di Ricci, che il giorno dell’omicidio lo aveva accompagnato in via della Magliana 253L ed era stato allontanato da De Negri con un pretesto. Questo portò all’arresto dell’uomo il 21 febbraio.

In poco tempo il Canaro confessò il tutto, entrando nei dettagli delle sue torture, ed in carcere scrisse anche un memoriale, con l’obiettivo di dimostrare come questo cruento omicidio fosse il frutto ed il culmine di tutte le vessazioni subite negli anni da Ricci.

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Queste forti dichiarazioni furono poi completamente smentite dall’autopsia: tutte le mutilazioni sul corpo di Ricci risultarono infatti avvenute post-mortem. Il decesso dell’uomo risultava infatti l’epilogo di una decina di martellate sul cranio, avvenuto nel giro di quaranta minuti.

La perizia medico-legale stabilì che la maggior parte delle violenze furono solo ideate, nel delirio della droga e nel desiderio di vendetta di De Negri, ma mai realizzate. Tutto finì in poco più di mezz’ora e Ricci morì per le ferite alla testa. Nessuna tortura gli fu inflitta da vivo, nessuna cauterizzazione, nessuno shampoo fu mai usato e mai Ricci entrò in nessuna gabbia, della quale non fu trovata traccia. L’assassino inoltre non si assentò per andare a prendere la figlia: mandò invece sua cognata.
Oltretutto subentrò l’ipotesi che De Negri non avesse agito da solo, ma che furono coinvolte più persone.

Dalle parti di via della Magliana 253L, ancora oggi, in molti vociferano che il Canaro non uccise proprio nessuno: Ricci sarebbe in realtà stato ucciso per un regolamento di conti e De Negri costretto a prendersi la responsabilità dell’omicidio: in caso avesse parlato avrebbe fatto la stessa fine del muscoloso “rivale”.

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Dopo il delitto apparvero sui muri del quartiere scritte di ferocia popolana, come “Canaro sei tutti noi”. De Negri, dopo l’arresto, fu sottoposto a perizia psichiatrica, dalla quale risultò affetto da un disturbo paranoide con incapacità di intendere e di volere causato dall’intossicazione da cocaina, che ne escluse la pericolosità sociale. In seguito ad una successiva perizia, l’incapacità di De Negri fu stabilita come parziale.

Inizialmente fu condannato a ventiquattro anni di reclusione, ma fu rilasciato dopo sedici, nel 2005, anche e soprattutto per via della buona condotta che tenne in carcere, dove mostrò molta disponibilità nell’occuparsi degli extra-comunitari e dei malati di AIDS.
Una volta uscito di prigione, il Canaro tornò a vivere con la sua famiglia ed ottenne un lavoretto come fattorino, anche se sempre seguito dai servizi sociali. Alla stampa, che ovviamente desiderava intervistarlo, fece una sola ed unica dichiarazione: “Vorrei essere dimenticato”.

“Nera-mente” è una rubrica in cui parleremo di crimini e non solo, scritta da Alice, studentessa ed aspirante criminologa: clicca qui per leggere tutti gli articoli

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