Numeri da paura

Rula Jebreal porta sul palco del Festival di Sanremo il femminicidio: nel savonese quasi uno all’anno

Le ultime vittime sono Loredana Colucci (2015), Janira D’Amato (2017), Roxana Karin Zenteno (2018) e Deborah Ballesio (2019)

femminicidio Loredana Colucci Janira D’Amato Roxana Karin Zentero Debora Ballesio

Liguria. “Non dobbiamo più avere paura, noi donne vogliamo essere libere nello spazio e nel tempo, essere silenzio e rumore e musica”. E’ il riassunto delle parole pronunciate ieri sera (4 febbraio), sul palco del teatro Ariston di Sanremo, durante la settantesima edizione del Festival della Canzone Italiana, da Rula Jebreal.

Un urlo, quello della giornalista internazionale, carico di forza e sentimento, a tratti crudo e duro (con il racconto della madre morta suicida), ma anche dolce (attraverso i testi di canzoni che hanno fatto la storia, scritte da uomini e dedicate alle donne).

Parole che non possono non riportare alla mente le storie di Loredana Colucci (2015) ad Albenga, Janira D’Amato (2017) a Pietra Ligure, Roxana Karin Zenteno (2018) a Boissano e Deborah Ballesio (2019) a Savona. Nomi e volti e di donne mai dimenticate, vittime di femminicidio in provincia di Savona. Non “semplici” ricordi, ma triste memoria per tutto il nostro territorio.

Una piaga mondiale che, anche in Italia, ha numeri spaventosi. Ogni giorno sono ben 88 in Italia le donne vittima di qualche tipo di violenza, una ogni 15 minuti. Nel 2019 sono state 95 le donne uccise (dato aggiornato a novembre), quasi una ogni tre giorni; il totale dal 200 ad oggi è arrivato a 3230. E numerosi, purtroppo, sono stati i casi di femminicidio che si sono consumati nella provincia di Savona, praticamente a cadenza annuale.

E il monologo di Rula Jebreal è dedicato a loro, a tutte le donne uccise da “carnefici che non hanno avuto bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: avevano le chiavi di casa”, a tutte coloro che sono state “torturate, uccise, violentate”. Una infusione di coraggio per chi subisce violenza e non ha la forza di reagire e un monito agli uomini affinché facciano l’unica cosa giusta, tanto “semplice” quanto grande: “Lasciare le donne libere di essere ciò che vogliono essere”.

Il discorso della giornalista sul palco dell’Ariston è iniziato con una serie di domande “poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale”. Domande che la giornalista ha definito “insinuanti, melliflue, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o troppo brutto perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta”.

“Io sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate”, ha proseguito. “Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri”.

E arrivano i dati quantomai sconfortanti: “In Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina”.

“Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa”.

“Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica. ‘Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma’, recitava nel suo potente monologo ‘Lo stupro’, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza.  Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà”.

“Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando qualcuno ci chiede ‘Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?’”.

“Sono stata scelta per celebrare la musica e le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è necessario parlare. Certo ho messo un bel vestito. Domani chiedetevi pure al bar ‘Com’era vestita Rula?’. Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: ‘Com’era vestita, lei, quella notte?’. Mia madre ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne”.

“E noi non vogliamo più avere paura. Vogliamo essere amate. Lo devo a mia madre, lo dobbiamo a noi stesse, alla nostre figlie. Nessuno può permettersi il diritto di addormentarci con una favola. Vogliamo essere note, silenzi, rumori, libere nel tempo e nello spazio. Vogliamo essere questo: musica”, ha concluso la Jebreal nel silenzio dell’Ariston, rotto solo da un lungo e caloroso applauso.

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