“È bene quando una persona contraddice le nostre aspettative, quando è diversa dall’immagine che ce ne siamo fatta. Appartenere a un tipo significa la fine dell’uomo, la sua condanna. Se non si sa, invece, come catalogarlo, se sfugge a una definizione, è già in gran parte un uomo vivo, libero da se stesso, con un granello in sé di assoluto”. L’affermazione di Boris Pasternak ci indica un percorso di per sè estremamente interessante: se sclerotizziamo un essere umano in un qualcosa di definito, prevedibile, coerentemente strutturato e questo non sa o non può o non vuole essere altro, ebbene, quell’essere umano ha rinunciato a se stesso e se stesso è il coraggio di lasciarsi sorprendere dalle proprie emozioni, lanciare il cuore oltre l’ostacolo e raggiungerlo, credere che il miracolo possa accadere nel prossimo istante.
Ma la saggezza, o meglio, quella che i nostri tempi spacciano per tale, suggerisce piuttosto l’omologazione che non il coraggio di credersi e divenire degni del proprio cielo. Vogliamo dare credito ai nostri carcerieri? Vogliamo rassegnarci ad essere prigionieri più o meno responsabili dei limiti reali o presunti della nostra possibilità di conoscere l’assoluto che è in noi? Vogliamo precluderci la possibilità di credere che esistano varchi alla recinzione soma-spirituale che ci nega ciò a cui siamo naturalmente predisposti?
La mia risposta è no, abbiamo, oltre che il diritto, anche la possibilità di accedere alla felicità, di superare l’orizzonte che corre alla stessa velocità del nostro incedere ma che non può competere con le possibilità ulteriori di cui disponiamo.
Mi riferisco alla regola delle tre A. Lo so, non è scritta nei libri, non la insegnano a scuola, ma in fondo la conosciamo tutti, solo non la ricordiamo perchè da troppi secoli è sotterrata dalla polvere pascaliana del divertissement. La chiusa dell’affermazione di Pasternak apre un meraviglioso spiraglio verso una visione più ampia di chi siamo. Quell’uomo abitato da un granello di assoluto è, potenzialmente, ognuno di noi, e nemmeno è così particolare, anzi, credo che l’uomo capace all’assoluto sia la norma, un modo di essere scordato ma non estraneo nemmeno all’abitante del villaggio globale.
Credo che nel tempo prima del tempo, in un’epoca rimossa dalla narrazione successiva poichè segnata dal peccato originale, no, non quello di Adamo, almeno, non esattamente quello, ebbene, allora l’umanità si trovò davanti ad un bivio: una via portava verso il nostro luogo d’elezione, il paradiso, l’altra verso la valle di lacrime del desiderarlo per sempre ma solo come ipotesi per un tempo che verrà. Chissà, probabilmente per pigrizia o per codardia, difficile a dirsi, ma l’umanità imboccò il percorso discendende, forse più comodo, semplicemente quello che sollevava dalla responsabilità della propria felicità, rinunciando così a quello che l’avrebbe condotta alla sua patria di elezione, su, “verso l’alto: a dispetto dello spirito, che lo attirava verso il basso, verso l’abisso, a dispetto dello spirito di gravità, il mio demonio e nemico mortale” come afferma Zarathustra in “Della visione e dell’enigma”. Lo sappiamo, non si torna indietro, ma io sono convinto che, anche in questo limbo anestetizzato che ci siamo costruiti, sopravvive in noi quella scintilla di assoluto di cui parla Pasternak, quella che, secondo la regola delle tre A, ci consente anche qui, in questa valle di lacrime, di respirare il profumo dell’assoluto.
Non ci crederete ma sono certo che tutti i miei lettori conoscano bene la regola, è quella che ci consente di sgretolare le barriere del tempo e dello spazio, la gabbia dell’ordine comune, la castrante limitazione del “così è” e del “si dice”: chi ha conosciuto davvero l’amore, quello che non ha regole, quello che se ne infischia del lecito, quello che ti restituisce le ali perdute … chi ha incontrato davvero il rapimento estatico dell’arte, l’arte che non ha bisogno del mercato, del consenso, del successo… chi è stato abitato dal rapimento dell’ascesi davanti ad un tramonto, correndo con passo lieve sulla curva dell’arcobaleno, lasciandosi condurre fino al divino… chi ha conosciuto l’assoluto che lo abita osservandolo con occhi profondi e coraggiosi senza temere di poter essere inghiottito da tanta bellezza, sa che vuol dire la regola delle tre A: A come amore, A come arte, A come ascesi. Ma occorre comprendere che, come scrive l’amico Gershom Freeman: “ogni essere umano è figlio del proprio coraggio e della profondità”.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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