Nessun raptus

Omicidio Janira, i giudici: “Fu premeditato: o tornava con Alessio o non sarebbe uscita viva da quella casa” fotogallery

Depositate le motivazioni della sentenza con cui Alamia è stato condannato all'ergastolo: "Il comportamento immediatamente successivo al delitto è stato lucido e privo di esitazioni"

Alessio Alamia

Savona. “L’imputato non aveva contemplato l’ipotesi che lei potesse, al tempo stesso, non riallacciare la relazione e uscire viva da quella casa”. E’ uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise di Savona, lo scorso 18 gennaio, ha condannato all’ergastolo Alessio Alamia per l’omicidio dell’ex fidanzata Janira D’Amato, uccisa il 7 aprile del 2017 a Pietra Ligure.

Secondo i giudici, come viene ampiamente spiegato nelle trentadue pagine della sentenza, quello compiuto dal ragazzo è stato un delitto premeditato e non dovuto ad un improvviso raptus: “si è trattato – si legge a pagina 23 – di un vero e proprio agguato, ancorché destinato a realizzarsi all’interno delle mura domestiche, ideato fin dalle prime ore del 5 aprile e pianificato nei giorni seguenti con l’insistente richiesta di un incontro alla vittima e con la predisposizione dei mezzi (coltelli)” per ucciderla.

Tre sono gli aspetti attraverso i quali la corte d’assise argomenta la sussistenza della premeditazione: la ricerca fatta dall’omicida sul motore di ricerca del suo smartphone su “come uccidere persone senza lasciare traccia”, la predisposizione dei coltelli in casa (oltre a quello utilizzato per uccidere Janira ne aveva lasciati altri due in camera da letto) e l’insistenza con cui Alamia ha preteso che la ex andasse a casa sua per ritirare i suoi vestiti.

Sul primo punto, il presidente della corte d’assise nonché giudice estensore della sentenza Emilio Fois spiega: “Ha un’importanza rilevante, anche se non decisiva, la ricerca su internet fatta dall’imputato nella notte tra il 4 e il 5 aprile quando scopre casualmente che Janira è fuori di casa in tarda notte. L’imputato ha finto di non ricordare che cosa si sono detti nella chiamata di otto minuti delle 2,30, ma pare evidente, alla luce dei contatti dei giorni precedenti e successivi, che la ragazza deve avere ribadito la fine della relazione e rivendicato con decisione la propria libertà, anche sentimentale. Posto che tra le 2,38 e le 3,16 non può essere successo altro, è del tutto evidente il collegamento tra la frustrazione e la gelosia provocate dall’uscita notturna di Janira ed accresciute dalla telefonata delle 2,30 e la successiva ricerca con Google su come uccidere delle persone. Il fatto che l’imputato non abbia ovviamente trovato alcun tutorial su come commettere un omicidio senza lasciare tracce e non abbia nemmeno visto i filmati (non pertinenti) emersi dalla ricerca non ha alcun significato perché quel che è certo è la nascita del proposito criminoso, almeno al livello di ideazione”.

Secondo i giudici, in seconda battuta, è molto rilevante anche “l’insistenza con cui Alamia ha preteso che la ragazza si recasse da lui a ritirare i vestiti, scartando a priori l’ipotesi di portarglieli lui”. L’omicida – come si legge nella sentenza – avrebbe più volte chiesto alla ex di andare a casa sua (dove sapeva che l’avrebbe aspettata da solo) con “toni non più supplichevoli bensì decisi e perentori” tirando anche in ballo la scusa di non poter lasciare da solo il cane (animale a cui la vittima, peraltro, era molto legata visto che lo avevano adottato insieme in canile). Di qui la conclusione che “l’imputato non aveva preparato in alcun modo i capi richiesti dalla vittima perché non aveva contemplato l’ipotesi che lei potesse, al tempo stesso, non riallacciare la relazione e uscire viva da quella casa.

L’ultimo elemento a supporto della tesi della premeditazione citato nella sentenza è quello relativo all’arma del delitto, ovvero il coltello a serramanico “che aveva in tasca e con cui si è avventato sulla ragazza uccidendola con 49 fendenti“. Quella non era l’unica arma a disposizione del killer: come hanno accertato i carabinieri in sede di indagine, Alamia aveva lasciato anche altri due coltelli da cucina in camera da letto. “La versione dell’imputato secondo cui tanto il coltello tenuto in tasca quanto i coltelli da cucina lasciati pronti nello scaffale della camera da letto, sarebbero stati tenuti per suicidarsi, per respingere eventuali intrusioni violente da parte dell’amico J.C. o per entrambe le cose insieme non meritano alcun commento e dimostrano come non vi fosse altro scopo che quello di tenere a disposizione dei mezzi per uccidere la fidanzata ove non avesse accettato di rimettersi con lui“.

Alla luce di queste considerazioni, secondo il giudici, è “assolutamente pacifica” la “circostanza che Alamia abbia pianificato l’omicidio come alternativa alla decisione di Janira di riprendere la relazione interrotta”.

Parte delle motivazioni della sentenza è dedicata anche a spiegare perché Alamia è stato assolto dall’accusa di stalking che la Procura contestava anche alla luce dei numerosissimi contatti telefonici dall’utenza del ragazzo verso quella della ex nelle settimane precedenti al delitto. “Si deve ritenere che, nonostante l’insistenza e la petulanza di Alamia, l’atteggiamento della ragazza non sia mai stato di vera e propria ansia o paura, ma sia stato quello tipico di quando termina una relazione: un misto di pena per la sofferenza dell’ex fidanzato, di fastidio per l’insistenza, di arrabbiatura quando la petulanza diventa molesta o crea situazioni di imbarazzo con terze persone. Si tratta di uno stato psicologico che nulla ha a che vedere con lo stalking” conclude la Corte d’assise.

Più di tre pagine sono invece dedicate a spiegare perché i giudici non hanno avuto dubbi sull’imputabilità dell’omicida e, di conseguenza, sulla sua capacità di intendere e volere. Su questo punto, al contrario, i difensori di Alamia aveva sollevato molti dubbi), ma la replica dei giudici è perentoria: “La Corte condivide la valutazione secondo cui i particolari tratti della personalità dell’Alamia, pur disarmonici, non abbiano quell’intensità e persistenza per configurare un disturbo di personalità, che comunque non sarebbe quello proposto dalla difesa”.

La struttura della personalità di Alamia non ha in alcun modo compromesso la sua capacità di determinarsi in relazione all’omicidio” si legge nelle motivazioni dove il giudice Fois aggiunge: “Anche il comportamento immediatamente successivo al delitto è stato lucido e privo di esitazioni o disorientamenti, visto che in una manciata di minuti si è lavato, cambiato, ha risposto al telefono parlando normalmente ed è uscito di casa. L’assenza di disorientamento o di condotte confuse o incongrue nella fase precedente e nei minuti successivi al delitto esclude qualunque tipo di frattura con la realtà anche durante l’esecuzione dell’omicidio”.

“In conclusione deve escludersi la sussistenza di qualunque disturbo di personalità rilevante, e comunque l’incidenza di tale disturbo sulle capacità di intendere e volere dell’imputato” spiegano i giudici che sul movente del delitto osservano: “L’insopportabilità dell’abbandono è stato sicuramente il fattore emotivo determinate rispetto alla decisione di uccidere l’ex fidanzata, così come l’assenza di empatia ha impedito il manifestarsi di adeguate controspinte morali o emotive, ma, per l’appunto, si è trattato di una decisione presa ed eseguita dall’imputato con piena, lucida consapevolezza”.

Il penultimo “capitolo” delle motivazioni è dedicato “alla determinazione della pena“, un aspetto su cui ha pesato il “comportamento negativo dopo delitto”, ma anche quello processuale.

L’imputato non ha maturato la decisione di confessare e costituirsi immediatamente dopo la commissione del delitto” e “probabilmente sperava che la nonna e la mamma potessero trovare delle soluzioni per evitargli di affrontare le responsabilità conseguenti al delitto commesso” osserva il giudice estensore della sentenza.

Quanto a quello che è successo in aula, nel tribunale di Savona, i giudici spiegano: “Alamia ha mentito reiteratamente agli inquirenti nel corso degli interrogatori ed alla corte nell’esame dibattimentale. La circostanza che lo abbia fatto in maniera maldestra contraddicendosi varie volte e proponendo versioni grossolanamente inverosimili non muta il giudizio sfavorevole”.

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