“È la parola che procura l’essere alla cosa” insegna Martin Heidegger nel saggio “In cammino verso il linguaggio” che raccoglie scritti prodotti dal 1950 al 1959 e che rimangono a tuttoggi riferimenti essenziali per una riflessione filosofica sul linguaggio. Forse l’espressione heideggeriana può risultare criptica, ma proviamo a riflettere assieme sul concetto di parola: è solo dopo che la parola adamica ha dato un nome alle cose che queste sono divenute ciò che la parola indicava. Nella metafora biblica, infatti, Dio presenta le bestie che ha creato ad Adamo, ma esse divengono loro stesse solo nel momento in cui il primo uomo le noma distinguendo le mansuete dalle feroci e, sempre più specializzando il proprio lessico, ri-conoscendo tra le prime le pecore dai capretti e tra le altre le tigri dai leoni.
Insomma, la realtà è ciò che la parola invera dando un senso a se stessa, la parola diviene ed è nello stesso momento in cui viene pensata come rappresentsante di un contenuto definendo e determinando il contenuto stesso. Ma siamo ancora in una fase preludiale del linguaggio, certo, fondativa e qualificante, ma agganciata a realtà che vengono “presentate” all’uomo, enti che pre-esistono e si pongono come interrogartivi per divenire definitivamente qualcosa nella “risposta” dell’uomo. Ora, non mi sembra il caso di addentrarci nella sottile speculazione heideggeriana intorno ai pregiudizi metafisici ed al rapporto tra essere ed esser-ci, ma possiamo certamente riflettere intorno a “parole più complesse” di quelle che identificano le bestie nell’Eden.
Mi riferisco a termini come libertà, giustizia, fratellanza e, per proseguire le argomentazioni dello scorso articolo, rispetto. Evidentemente la “domanda”, il “presentarsi” non è più quello della bestia al cospetto dell’uomo, la stessa domanda è auto-posta dal soggetto che le darà battesimo. La contemporaneità di domanda e risposta nell’atto crea qualche complicazione. In questi casi possiamo affermare che le parole sono come dei sacchi, ottimi contenitori ma, se non vengono riempite di significati, ecco che si afflosciano perdendo ogni ragion d’essere. Va anche detto che l’atto di riempimento della parola-sacco non è, specie nel caso che andiamo ad analizzare, cioè quello del rispetto, una attività così ovvia.
È importante comprendere che ogni azione di riempimento è ciò che Heidegger definirebbe come “risposta alla chiamata dell’essere nel tempo”. Il linguaggio del filosofo è spesso evocativo, allusivo e poetico nell’accezione più alta del termine, ma proviamo a portarlo a livello della nostra conversazione esplicitandolo: l’atto di assegnazione di senso non è mai “una volta per tutte”, ma è sempre un’azione frutto del tempo stesso che la determina, un tempo che diviene, che muta con l’umanità che lo abita, che lo determina e ne è progenie contemporanea.
Quella che Heidegger chiama “apertura” è, quindi, la realtà contingente nella quale ogni uomo si trova e dalla quale, in qualche misura, è sempre determinato ma, proprio essendo responsabile del senso che assegna al proprio linguaggio, diviene creatore di senso, insomma, la parola nel suo significato è la risposta del passato in cui ci siamo trovati e contemporaneamente la domanda che ci viene rivolta. La nostra responsabilità sta nella risposta che diamo presentificandola nei contenuti e rendendola la risposta-domanda che interrogherà le prossime generazioni.
Se la parola fosse definitiva significherebbe che tutto è stato detto e questo comporterebbe che nulla più quella parola saprebbe dire, al contrario ogni detto proviene da un silenzio che ne è la radice inesauribile, il silenzio di ciò che ancora non è stato detto e che attende di essere pronunciato. Solo sapendo ascoltare quel silenzio sarà possibile ridonare alla parola la possibilità e la forza per essere contemporaneamente risposta e nuova domanda. Una interrogazione capace di far comprendere “l’apertura del mondo” che non abbiamo determinato ma nella quale ci siamo trovati “gettati” e dalla quale siamo stati determinati.
È importante comprendere che questa situazione non ci solleva da responsabilità, anzi, ci rende capaci a nuove aperture, all’ascolto del silenzio che facciamo divenire parola nuova ed ecco allora che dobbiamo domandarci quale testimonianza – risposta lasciamo a chi verrà? Un breve spunto polemico ma, spero, costruttivo può essere il suggerire di osservare l’uso e l’abuso della parola nei dibattiti televisivi: il rispetto di cui spesso si parla scompare nel momento in cui l’antagonista diviene un nemico e la parola, lungi dall’essere strumento di comunicazione, si asserve alla macchina del fango. Il rumore confuso delle voci che si sovrappongono non consente più la sopravvivenza del silenzio, proprio di quel disporsi all’ascolto per cogliere il silenzio che la parola non può dire senza l’ausilio di un orecchio intelligente che sappia divenire strumento per dar voce a ciò che sarà eredità.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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