La recensione

Savona, nuovo album della band “The Sunbrust”

La scrittrice Emanuela E. Abbadessa racconta l'ascolto di "Resilience & Captivity"

the sunbrust

Savona. E’ uscito il nuovo lavoro dei “The Sunbrust”, gruppo savonese che a quattro anni di distanza dal primo impegno discografico (Tears off the darkness, Red Cat Records) ora presenta “Resilience & Captivity”.

A recensire l’album è la scrittrice Emanuela E. Abbadessa:

C’è qualcosa di ancestrale nelle sonorità di The Sunburst, capaci di coniugare molte delle anime del rock, da quelle più aliene, alle altre di più stretta misura (come Soundgarden, Audioslave, Alter Bridge e, in qualche modo, System of a Down). Ancestrale lo è per quanti hanno praticato scorribande nel mondo musicale novecentesco. Per tutti quelli cioè, che, non ancorandosi alla rassicurante tranquillità di una sola band da seguire con scodinzolante entusiasmo adolescenziale, hanno saputo godere il sinfonismo del Progressive o il lirismo dei Queen; per quanti hanno amato sentirsi la pelle graffiata dalle chitarre più violente ma anche più virtuose; per chi ha sorriso all’eccesso del glam, esultato sulle ritmiche più inusuali del grunge, per chi ha avuto un fremito con i Pink Floyd per poi farsi sconvolgere dalla provocante “pornografia” di Zappa; per quelli che hanno socchiuso gli occhi sul ballatismo che dal “padre blues” prendeva ispirazione e a lui tornava, per tutti loro, The Sunburst, lungi dal proporre un freddo enciclopedismo, nel puro divertimento del gioco – to play music – restituisce, finalmente, il rock alla sua essenza.

A quattro anni di distanza dal primo impegno discografico (Tears off the darkness, Red Cat Records), lo fa anche con il nuovo CD, Resilience & Captivity, e, nell’opporre all’idea di resilienza quella di prigionia, non teme di “sporcarsi le mani”.

Davide Crisafulli (voce solista e chitarra), Francesco Glielmi (basso), Luca Pileri (chitarra solista) e Stefano Ravera (batteria) propongono un prodotto di cristallina sincerità, millimetricamente preciso, al punto che nessuno, nemmeno al primo impatto, può restarne estraneo.

Perché questo sa fare la musica quando è buona, prendere l’ascoltatore per mano e tirarlo dentro l’ambiente sonoro, senza facili ammiccamenti, ma soltanto con la forza della genuinità del prodotto. Questo sa fare la musica quando è buona, anche quando spinge violentemente chi ascolta a essere parte dell’universo immaginifico che The Sunburst sa sperimentare, in una messa in scena al cui centro viene posto il suono.

È così che l’accordo tra gli strumenti e la voce diventa un impasto imprescindibile che graffia o accarezza rievocando i grandi temi (sonori e non solo) della memoria rock. In questo modo, spuntano, tra dieci tracce tutte indispensabili, fenici, ceneri, venti, diamanti e mondi in fiamme che riportano a un passato in cui, al facile effettismo, si preferiva la qualità.

La memoria si libera, fa un balzo in avanti, trova il nuovo, a quello si accosta, lo ingloba e dà vita a una vera proposta originale come poche altre.
Perché, alla fine, come cantava Neil Youg, rock’n’roll never dies.

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