Savona. Attraverso Piazza del Popolo e vedo che ogni singola panchina dell’area a verde pubblico, è occupata da stranieri, giovanotti di colore dall’aspetto atletico, con abbigliamento griffato, intenti a smanettare smartphone di ultima generazione, molti di essi li trovi anche all’uscita dei negozi del centro, che hanno eletto a loro “posto di lavoro”, con un cappello in mano per chiedere una oblazione ai clienti che escono con la spesa.
Raramente ne vedi qualcuno con una casacca arancione e un badile in mano a sistemare i tombini delle strade.
Le strade cittadine sono percorse da altri loro colleghi su biciclette di provenienza ignota, spesso in contromano o sulle corsie dei bus, senza fare alcuna attenzione alla loro incolumità.
I bus che raggiungono la Valle Bormida e le altre località della provincia sono pieni di questi migranti o profughi o richiedenti asilo, non so più come definirli e spero ardentemente che paghino anch’essi il biglietto.
Dai treni che provengono da Genova, scendono alla mattina decine e decine di venditori ambulanti che trovi successivamente sulle spiagge mentre cercano di venderti la loro mercanzia e la sera gli stessi plotoni di “commercianti” risalgono in massa alla stazione, per tornare a Genova dove risiedono.
Fra i venditori che mi guardo bene da definire “vucumprà”, solo perché lo ritengo un termine riduttivo, ci sono anche delle donne, robuste matrone vestite di abiti vivacemente colorati, con grandi cesti appoggiati sul capo, ma ci sono anche giovani donne, anche più attraenti, soprattutto fra i nuovi arrivati, che vagano anch’esse per la città, senza scopo apparente o almeno così sembra.
Ricordo circa 25 anni fa, la prima avanguardia di mille Albanesi, giunti a Savona e sistemati nella ex caserma Blignì, fra loro c’erano anche quelli che avevano una inclinazione atavica a commettere reati, ma la maggioranza di loro avevano una caratteristica che agli ultimi arrivati manca: l’ambizione di fare.
Quella ambizione a tentare di crearsi un futuro, per loro e soprattutto per i figli, magari in competizione con gli Italiani, però c’era questa molla che li spingeva avanti e che soprattutto indicava la volontà di ritornare alla terra da dove erano venuti in povertà e dove comunque volevano tornare fortemente, migliori di come erano partiti.
I nuovi arrivati, lasciano da dove provengono, delle condizioni di vita terribile, e hanno trovato qui, condizioni di vita che a loro appaiono certamente migliori e soprattutto si confrontano con un sistema sociale che soddisfa pienamente, almeno per ora, le loro aspettative, centri commerciali con super negozi di elettronica, una ampia libertà di movimento, ammortizzatori sociali garantiti dalle numerose associazioni caritatevoli, una certa benevolenza nel nome della fin troppo abusata accoglienza di cui pare certi ambienti politici e religiosi si facciano paladini. Certo, ogni tanto si devono confrontare con la polizia o con i Carabinieri ma eventualmente si trova sempre uin avvocato buonista che li difende nel nome dei principi in cui crede, oppure un magistrato decisamente comprensivo e il gioco è fatto, detto ciò, questi non vogliono assolutamente tornare a casa loro, si sono bruciati i ponti alla spalle.
Fin qui potrebbe andare bene, solo per loro certamente, ma i loro continui e numerosi arrivi di questi giovani, tolgono spazio sempre più a noi, restringendo in modo sempre più forte la nostra libertà, i nostri movimenti, le nostre aspettative e l’idea che viene fuori è questa: abbiamo perso una cosa importantissima, la nostra Patria che era proprio l’unica cosa che ci rimaneva, e un popolo senza Patria è destinato a soccombere.
Roberto Nicolick