Calcio

Giovani, forti e tutti baschi: la favola autarchica dell’Athletic Bilbao

Lo speciale Settore Giovanile del ct Vaniglia

Athletic Bilbao

Una speciale statistica che non può di certo passare inosservata:  ben 18 giocatori provenienti dalle giovanili delle squadre dell’ Athletic Bilbao questa stagione hanno giocato almeno un minuto nel massimo campionato per la squadra bianco rossa. Sono Iraizoz, Herrerin, Laporte, San José, Etxeita, Gurpegi, Balenziaga, Eneko Bóveda, Iturraspe, Beñat, Eraso, Aketxe, Ibai, Susaeta, Muniain, Aduritz, Merino e Williams i ragazzi provenienti della cantera  che hanno avuto la fortuna e la bravura di arrivare fino alla prima squadra e fare il loro esordio.

Lo studio è stato fatto grazie ai dati raccolti da Soccerex Transfer Review che ha mostrato come il Bilbao sia il miglior team in questa speciale classifica. Il club della zona dei Paesi Baschi è sempre stato attento alle politiche dei vivai fin dalla propria fondazione, valorizzando tantissimo i calciatori provenienti soprattutto dalle zone limitrofe, dato anche il rapporto stretto che la città di Bilbao ha con il calcio, visto non solo come uno sport ma addirittura come un mezzo per esprimere la propria identità.

Una cantera quella biancorossa (l’impianto sportivo di Lezama è un gioiello di modernità) che peraltro ha dato alla Spagna spesso calciatori importanti. L’Athletic Club di Bilbao rappresenta un caso unico nell’intera storia del calcio mondiale, scrisse L’Equipe in un editoriale degli anni ’60. Da allora le cose sono cambiate solo in minima parte e gli zurigorri (“biancorossi” in euskera, la lingua basca) continuano ostinatamente a combattere la loro battaglia, di retroguardia secondo i detrattori, contro il fútbol moderno e le sue ineffabili storture. Impossibile definire in altro modo la tenace adesione a un modello sportivo, la celebre “filosofia dell’Athletic”, che per gli sportivi più romantici rappresenta l’Eden, mentre per gli amanti del calcio-business è solo un carrozzone anacronistico.

Una filosofia che da quasi cento anni fa sì che il club utilizzi un bacino ristrettissimo di giocatori: quelli nati nei Paesi Baschi (nell’accezione di Euskal Herria, che comprende cioè anche Navarra e paesi baschi francesi) o cresciuti fin da giovanissimi nel vivaio di un’altra squadra basca. Uno stadio caldissimo come il San Mames, soci-tifosi che decidono il regolamento del club, risultati interessanti e, in panchina, l’allenatori importanti come Bielsa che in passato che ha detto no perfino all’Inter. Il trainer argentino era in allora l’unico straniero consentito, perché possono indossare la camiseta biancorossa solo giocatori locali.

Anche oggi, quando il pallone sembra non essere più in grado di liberarsi dalla tirannia di sponsor, televisioni e miliardi, esiste una via di fuga: un altro calcio è possibile. Questa banda di ragazzini che nei colori della maglietta ha indossato la propria identità. Rosso, bianco e verde sono i colori dell’ikurriña, la bandiera della comunità che abita Euskal Herria: un conglomerato di regioni pirenaiche tra Spagna e Francia che si affacciano sul Golfo di Biscaglia e dove la gente, storicamente divisa dai confini geografici imposti, è unita dalla cultura e dal linguaggio comuni. L’autarchia è la regola numero uno del club.

Se nel 2008 l’Athletic si è arreso allo sponsor sulla maglia – la compagnia di raffinazione petrolifera basca Petronor che versa al club 2 milioni all’anno – ancora nel 2010 il 94 per cento dei soci del club ha votato contro il cambiamento della regola dello statuto che impedisce di tesserare giocatori non baschi. In oltre cento anni di storia nessuno straniero ha mai vestito la maglia biancorossa dell’Athletic. Le eccezioni sono i “non baschi” che da piccoli hanno cominciato a giocare a calcio nelle giovanili di una squadra basca e i figli di baschi nati all’estero.

Il nazionalismo del popolo basco non ha nulla a che vedere con fascismi o leghismi di sorta, ma è storicamente improntato alla solidarietà comunitaria e a un proto-socialismo divenuto esplicitamente politico negli anni della resistenza partigiana alla dittatura franchista. Nell’era Bosman del calcio europeo, dove i calciatori circolano liberamente. Lo storico vivaio dell’Athletic che non ha nulla da invidiare alla cantera de La Masia, dove alleva i suoi piccoli campioni il Barcellona, altra squadra che, seppur in maniera meno rigida dell’Athletic, ha scelto la via autarchica per dare l’assalto al cielo del calcio moderno.

E non è un caso che, dopo il Real Madrid, siano proprio Barcellona e Bilbao le squadre più vincenti spagnole. I baschi nella loro storia hanno vinto 8 campionati e 23 coppe nazionali, gli ultimi trofei negli anni Ottanta, sotto la guida tecnica di Javier Clemente, il mitico rubio de Barakaldo. Poi il buio, pur senza mai retrocedere. Lo stadio dell’Athletic, soprannominato con timore reverenziale La Catedral ed il  suo nome è dovuto a una chiesa lì vicina dedicata al santo Mamés, un cristiano gettato dai romani in pasto ai leoni, ma che le bestie intimorite si rifiutarono di mangiare. Epico e indistruttibile, come il sogno autarchico dell’Athletic Bilbao.

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