Certificato penale obbligatorio da lunedì per chi è a contatto coi minori: aziende, asili, scuole e parrocchie nel caos

Palazzo di Giustizia (Tribunale) di Savona

Liguria. “Il certificato penale deve essere richiesto dal soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori, al fine di verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies e 609-undecies del codice penale”.

Eccolo, il testo del decreto 39/2014, la norma che ha gettato nel panico asili, parrocchie, associazioni culturali, gruppi scout, scuole di danza, cooperative e in generale tutte le realtà che in qualche modo si rapportano con costanza con minorenni. Ancora oggi non lo sa quasi nessuno: ma dal 6 aprile (cioè fra tre giorni) scatta l’obbligo del “certificato antipedofilia”. E per chi non è a norma la sanzione è salatissima: dai 10 ai 15 mila euro.

Dipendenti di aziende pagati o volontari di realtà no profit, non fa differenza: e quindi la norma coinvolge catechisti, animatori, militi delle Croci, baby sitter, allenatori, insegnanti di teatro, bidelli. L’obiettivo della legge è quello di contrastare la pedofilia, andando a monitorare quelle realtà vicine ai piccoli: l’assurdità sta nel fatto che, al momento, nessuno può ottemperare alla norma, poiché un’altra legge, quella sulla privacy, impedisce a chiunque (tranne che alla pubblica amministrazione) di richiedere la fedina penale di un altro.

La nuova legge obbliga chi organizza l’attività (il “datore di lavoro” in senso lato) a richiedere in tribunale il certificato; ma un’altra legge vieta espressamente ai datori di lavoro di richiedere queste informazioni. Insomma, da lunedì le scelte per onlus, cooperative e società sportive sono due: essere fuorilegge o chiudere.

Nel tribunale di Savona, proprio oggi, si è tenuta una riunione sul tema, per cercare una luce nel tunnel del caos normativo in cui l’universo del no profit, le parrocchie e gli asili rischiano di precipitare. Le soluzioni dettate dal buonsenso sono due: chiedere ai propri collaboratori di fare domanda autonomamente e consegnarlo all’azienda o all’associazione di propria volontà, oppure ottenere la delega alla richiesta e al ritiro. In entrambi in casi, il “dipendente” in pratica si autodenuncia, accettando di rendere partecipe il “datore di lavoro” della propria fedina penale. Problema inesistente per chi è incensurato, meno per chi ha magari nel proprio passato una guida in stato di ebbrezza o episodi di violenza. Anche perché quegli episodi potrebbero non essere legati al mondo della pedofilia, e il collaboratore potrebbe rifiutarsi di esibire il certificato; e a quel punto per chi organizza l’attività non c’è soluzione, dato che la legge obbliga lui, e non il “dipendente”, a fare richiesta. E non si può nemmeno richiedere un certificato “selettivo” che indichi solo i reati legati alla pedofilia.

Caos su caos, la legge obbliga il “datore di lavoro” (sia esso professionale o amatoriale) a richiedere informazioni nel momento in cui intende impiegare una persona a contatto coi minori: ma non c’è modo di garantire che l’intenzione sia reale, ed impedire richieste “abusive” volte ad avere informazioni su qualcuno.

Oltre ai pasticciati aspetti legali, ce n’è uno molto più pratico: quante sono le persone che solo in provincia di Savona “lavorano” con i bambini? Tante, tantissime. Le cooperative sociali si trovano a dover richiedere (e non poter ottenere) il certificato, entro lunedì, per centinaia di dipendenti; ogni squadra sportiva per tutti i propri allenatori, ogni asilo per le proprie maestre… una mole di lavoro che, in ogni caso, il casellario del tribunale non potrebbe smaltire.

Il decreto 39 (che ha aumentato le pene per i pedofili e inasprito le sanzioni per i maniaci che agiscono attraverso internet) nasce con l’obiettivo di recepire una direttiva europea, che invitava a concedere ai datori di lavoro il diritto di richiedere informazioni: solo in Italia il diritto si è trasformato in obbligo, senza peraltro la possibilità legale di ottemperarvi.

Rimanere fuorilegge, chiudere, convincere i propri collaboratori alla trasparenza o pagare la supermulta, dunque. Al momento altra alternativa non c’è. A meno di non sperare che prevalga il buonsenso, e che da lunedì non scattino controlli a tappeto che metterebbero in ginocchio mezza Italia.

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