Cronaca

Stroncata da un tumore a 12 anni, il pm attende una memoria difensiva prima di decidere se archiviare o no l’inchiesta

Naomi Nardo

Savona. Non è ancora stata scritta la parola fine sull’inchiesta per la morte di Naomi Nardo, la dodicenne savonese stroncata da una grave forma tumorale. Il sostituto procuratore Chiara Maria Paolucci, dopo l’esito dell’incidente probatorio discusso lo scorso 9 gennaio, non ha ancora deciso se archiviare o meno l’indagine che vede sette medici accusati di omicidio colposo. Una scelta dovuta ad una ragione ben precisa: il magistrato sta aspettando che il legale della famiglia della ragazzina, l’avvocato Roberto Suffia, consegni una memoria difensiva.

Un documento, redatto sulla base di alcuni studi scientifici, che ovviamente dovrebbe fornire argomentazioni valide a sostenere la tesi che la patologia di Naomi poteva essere diagnosticata. Una tesi opposta a quella sostenuta dai due periti, Antonio Osculati dell’Istituto di medicina legale di Varese e Claudio Favre oncologo pediatrico all’ospedale di Pisa, nominati dal gip Donatella Aschero. Secondo la coppia di esperti non c’è infatti la prova del nesso causale tra la presunta mancata diagnosi e la morte della paziente così come del fatto che ci sia stata imperizia da parte dei medici.

Nella loro perizia i medici avevano analizzato in dettaglio, anno per anno, l’evolversi della patologia, scatenata da un melanoma, che aveva colpito la piccola nel 2002 e nel 2010 l’aveva stroncata all’ospedale Gaslini di Genova. Nello studio gli esperti nominati dal giudice hanno spiegato perché, secondo la loro analisi, nel caso di Naomi Nardo non è possibile riscontrare la prova dell’esistenza del nesso causale tra la condotta dei medici (ed eventuali imperizie da loro commesse) e l’evento morte. Condizione necessaria affiché sia contestabile il reato di omicidio colposo ipotizzato a carico di sette medici degli ospedali San Paolo e Gaslini.

La perizia di Favre ed Osculati sottolinea che nel 2002, quando Naomi fu operata la prima volta, le conoscenze scientifiche non sarebbero state sufficienti per effettuare una corretta diagnosi della patologia che l’aveva colpita: un “nevo di Spitz atipico” come accertato in seguito. Una conclusione opposta a quella del perito della famiglia delle ragazzina, secondo cui invece i dottori che l’avevano in cura sarebbero stati in grado di poter fare la corretta diagnosi. Un concetto che probabilmente sarà ribadito nella memoria difensiva, un documento che potrebbe spostare l’ago della bilancia verso la scelta di non archiviare il procedimento penale.

 

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