Alassio. Don Luciano Massaferro era stato arrestato dalla polizia il 29 dicembre 2009, dopo le segnalazioni arrivate dagli psicologi dell’ospedale Giannina Gaslini di Genova e che aprlavano di abusi su una minorenne, sua parrocchiana. Nel processo di primo grado, i pm savonesi Giovanni Battista Ferro e Alessandra Coccoli avevano ritenuto accoglibile il racconto della chierichetta. L’intera delicata vicenda aveva sollevato un polverone di polemiche, anche oggi evidente, con la divisione dell’opinione pubblica locale in colpevolisti ed innocentisti.
Il ricorso al secondo grado di giudizio era stato richiesto dagli avvocati difensori del prete, Mauro Ronco e Alessandro Chirivì, che avevano depositato un documento di 174 pagine nel quale veniva ricostruita nel dettaglio la vicenda giudiziaria del religioso, adducendo motivazioni di “non attendibilità” della piccola destinataria delle molestie.
La sentenza di primo grado era stata emessa lo scorso 17 febbraio: non solo la condanna a sette anni e otto mesi di reclusione ma anche l’interdizione perpetua dall’esercizio dei pubblici servizi e dei servizi a fini educativi, mentre per la vittima era stato disposto un risarcimento di 180 mila euro (oltre a 10 mila euro per la madre della piccola). All’epoca il sacerdote era stato rinchiuso dapprima nel carcere di Valle Armea a Sanremo, per poi ottenere prima il trasferimento nel convento di suore di clausura a Diano Castello e fare infine ritorno nella “sua” Alassio, nell’alloggio dietro alla canonica della parrocchia di San Vincenzo Ferreri.
Erano almeno tre gli episodi di molestie che gli venivano attribuiti, in particolare nel corso dei “tour” per le benedizioni delle case, alle quali aveva partecipano anche la sua piccola accusatrice, rappresentata in giudizio dall’avvocato di parte civile Mauro Vannucci.
Le due sentenze di condanna non avevano però scoraggiato i legali e i “fans” di don Luciano – su Facebook vi è una pagina a lui dedicata, oltre al blog che vede pubblicat gli atti dell’iter giudiziario – al punto che la difesa si è rivolta alla Cassazione.
In 61 pagine la difesa aveva motivato la richiesta alla Suprema Corte di scagionare il prete di Alassio dalle accuse di abusi sessuali su una chierichetta di 12 anni.
Sette i punti presi in esame nel documento giudiziario: inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale e per vizio della motivazione con riferimento alla violazione del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio dell’imputato; l’omessa considerazione delle prove raccolte dalla difesa tese a discolpare don Lu; l’assoluta inadeguatezza metodologica dell’indagine psicologica condotta sulla minore, nonché alla erronea valutazione dell’attitudine della stessa, sotto il profilo intellettivo ed affettivo; l’omessa valutazione dell’attendibilità oggettiva della minore, sotto i diversi profili dell’incostanza dichiarativa, dell’incongruità dell’approccio dichiarativo con le altre bambine e dell’illogicità intrinseca del discorso; in appello non sono state prese in esame le rimostranze della difesa in merito ai criteri di attendibilità della testimonianza della minore; la deposizione della minore nell’incidente probatorio non sarebbe stata inquinata dal contatto suggestivo intrattenuto con l’assistente di Polizia che l’aveva sentita e incoraggiata in una precedente audizione; infine la mancanza assoluta e illogicità della motivazione con riferimento all’assunto – che costituirebbe un riscontro dell’attendibilità della minore – secondo cui l’imputato avrebbe deciso di “distruggere i registri” o di farli scomparire “successivamente”.
Oggi, la sentenza di terzo grado.