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Occupazione, persi 500 mila posti di lavoro in un anno

Operai al lavoro

[thumb:14760:l]Tra giugno 2008 e giugno 2009 mancano all’appello 557 mila posti di lavoro. E’ questa la fotografia che emerge calcolando il numero di contratti attivati e quelli cessati in un anno scattata dalla Uil nei mesi a cavallo della più grande crisi economica del Paese, sulla base delle comunicazioni obbligatorie che le imprese sono tenute a presentare. Un saldo negativo che può arrivare fino ad 1 milione di posti di lavoro persi se si aggiungono i 470 mila lavoratori in Cig a rischio. I dati del sindacato, infatti, mostrano come a giugno, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, ci sia stata “una forte contrazione dei rapporti di lavoro attivati, con un segno negativo di oltre 457 mila chiamate in meno”.

Nel giugno 2008 il numero dei nuovi rapporti di lavoro attivati era di 1,3 milioni a fronte degli 850 mila di quest’anno. Le cessazioni, invece, parlano di aumento nel 2009 del 10,3%, circa 1 milione complessivamente, che corrisponde in valore assoluto ad oltre 100 mila cessazioni in più rispetto allo stesso mese del 2008. Non solo. A giugno l’incidenza dei rapporti cessati sul numero di quelli attivati è stata del 125,4%, rispetto al 74,1% dello stesso periodo del 2008. Ma non è solo il numero a preoccupare il sindacato: secondo la Uil c’è anche la tendenza ad abusare della flessibilità contrattuale offerta dal mercato a rendere più fosco il quadro e a sollecitare la necessità di una rivisitazione delle regole di accesso al mercato. Dei circa 17 milioni 815 mila rapporti di lavoro attivati tra il gennaio 2008 e giugno 2009, infatti, il 62,6% ha riguardato contratti a tempo determinato; il 7,3% collaborazioni a progetto; il 4% apprendistato; l’1,5% tirocini; il 23,9% contratti a tempo indeterminato e lo 0,5% contratti di inserimento. Di questi circa 15 milioni 146 mila sono stati poi interrotti, chiudendo in larga parte rapporti di lavoro a termine, e solo il 3%, (circa 527 mila), sono stati trasformati in rapporti di lavoro a tempo pieno e indeterminato.

“I dati confermano l’assoluta preponderanza di tipologie contrattuali deboli rispetto a quelle tradizionali e la bassissima percentuale di trasformazione in rapporti di lavoro stabili, neanche il 3%, ci dice che quella funzione di gradualità che avrebbero dovuto svolgere i contratti a tempo di fatto non c’è e che il lavoro flessibile non è più una eccezione ma la norma – spiega Guglielmo Loy, curatore dell’indagine – Ma i numeri confermano anche la debolezza ‘cronica’ del Mezzogiorno. A fare la parte del leone, infatti, è il Nord che ha avviato complessivamente il 43,2% dei rapporti di lavoro ma ne ha anche trasformati il 55,8% di quelli passati a tempo indeterminato. Il Sud invece registra il 33,4% dei rapporti attivati ma anche una percentuale di trasformazione molto bassa, appena il 19% là dove il Centro denuncia il 23,5% di attivazione di rapporti di lavoro e il 25% di trasformazione”.

Dall’analisi dei dati, inoltre, emerge che il lavoro femminile è caratterizzato da contratti più flessibili e quindi è esposto ad una maggiore precarizzazione rispetto a quello maschile: su ogni 100 donne assunte 73 hanno un contratto a termine o a progetto (contro i 66 su 100 degli uomini) e solo 23 su 100 lavorano con un contratto a tempo indeterminato o di apprendistato (contro i 31 su 100 degli uomini). “Mi pare che i dati indichino come sia matura la necessità che prenda corpo una fase di riformismo reale nel mercato del lavoro non solo sugli ammortizzatori sociali ma anche sulle modalità di assunzione – spiega ancora Loy, che poi conclude sottolineando come sia necessario “scambiare una maggiore stabilizzazione dei rapporti di lavoro con nuove regole per aiutare le imprese a superare eventuali momenti di crisi”.

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