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A Savona la mostra “Non auro sed ferro” dell’artista Alessandro Carnevale

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Non auro sed ferro mostra Alessandro Carnevale
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Dal 19 marzo al 16 aprile, dalle 15.45 alle 18.00, le Cellette della Fortezza del Priamar di Savona ospitano la mostra “Non auro sed ferro”, che comprende quaranta opere dell’artista cairese Alessandro Carnevale, ed è  patrocinata dal Comune di Savona – Assessorato alla Cultura ed organizzata dall’associazione DLQ – DiEtRoLeQuInTe.

I soggetti delle opere sono ispirati dalle aree industriali dismesse della Val Bormida, dagli scali dei porti di Vado Ligure e dalla stazione “Miramare” di Savona. Altre suggestioni, in particolare per i paesaggi marittimi, giungono dai porti di Genova, Trieste e Marghera. I materiali usati dall’artista sono il ferro e l’alluminio di smantellamento industriale.

L’artista e le opere in mostra  al Priamar

Alessandro Carnevale ha esposto le sue opere in tutto il mondo: New York, Hong Kong, Berlino, Parigi, Londra, Bruxelles, Roma, Venezia, Trieste. Ha vinto il premio Internazionale di pittura Moderni 2013, si è classificato secondo ai premi Cascella e Ghiggini 2015, è stato finalista al W.A.Y. di Milano, è stato selezionato per il Galà de l’Art di Monaco, Firenze e Londra. La rivista U.S.A. International Contemporary Artists l’ha nominato fra i 350 migliori artisti del 2015 e 2016. Il magazine ArtPeolpe di San Francisco, California, lo ha eletto uno degli artisti emergenti più interessanti del mondo.

Tecnicamente, le opere di Carnevale sono l’espressione materica – sia per i supporti che per le tecniche “pittoriche” – del mondo industriale che evocano. Si tratta di lastre di metallo realizzate in metalli, come ferro, alluminio, acciaio e zinco, lavorati attraverso reazioni chimiche di ossidazione, combustioni a fiamma libera e torce da saldatura, vernici industriali con basi in butanone ossima per contrastare l’aggressione degli acidi. L’effetto finale è comunque quello di un’opera pensata e creata per essere esposta a parete, e dunque inscrivibile nel mondo della pittura, anche se non si può dire si tratti di opere scultoree, malgrado l’impiego di materiali così pesanti e lontani dal mondo classico del “dipinto”.

La ricerca “alchemica” svolta dall’artista è il cuore della resa finale di ogni opera: i colori sono accesi sulle lastre di ferro dai diversi strati di ruggine, emersi dopo lunghe esposizioni a sostanze corrosive e soluzioni saline. Nei quadri in alluminio la fioritura della lastra è incenerita dalle combustioni; i supporti in acciaio vengono invece trattati come “matrici” incisorie, scalfite da bulini, trapani e smerigliatrici. La vernice industriale, nera, resta l’unico elemento portato a pennello nell’insieme di tecniche utilizzate per ogni diverso metallo. Le lastre in zinco, caratterizzate dalla resa cromatica ridotta al bianco e al nero, segnano il tentativo di dipingere “con il fuoco”: la fiamma ossidrica, le torce da saldatore e le fiamme libere diventano la lapis incandescente che sviluppa tutto il disegno sulla tela metallica.

Il significato della mostra

Un titolo insolito NON AURO SED FERRO, ma non per i materiali che usa l’artista (ferro e alluminio di smantellamento industriale). Insolito perché l’espressione, latina, rimanda a epoche preindustriali, ma soprattutto perché si è legata a memorie di orgoglio per il romanesimo nazionale. Con cui l’opera di Carnevale non ha a che fare.

L’artista infatti ha voluto che il senso di questa espressione fosse riscritto: perché iscritto nel percorso materiale e ideale entro cui si sviluppa la sua ricerca artistica. Un richiamo all’antico c’è, come ha notato Roberto Del Frate, curatore della recente mostra triestina Scandalo Metallico nel catalogo che ha curato: «Queste creazioni, con la loro patina ancestrale, mi hanno rimandato indietro di forse troppi anni quando mi interessavo di archeologia: il ferro, questo materiale a cui, assieme al bronzo,  è stata dedicata un’intera epoca della storia dell’uomo».

L’epoca del ferro è l’epoca del lavoro materiale: dall’agricoltura delle vanghe e dei vomeri fino alle fabbriche, alle acciaierie, agli altiforni. Un’epoca di cui l’opera e la riflessione di Carnevale misurano l’inesorabile, “scandalosa” fine. Almeno alle nostre latitudini europee, dove regna l’oro dell’economia finanziarizzata. «Tutti i metalli – continua Del Frate – ora li vediamo via via soppiantati da un’orgia di plastica anonima; quei metalli che hanno tutti una loro storia; un’origine nascosta in migliaia e migliaia di fusioni».

Le fabbriche sono state il luogo e il motivo di maggiore conflitto sociale e politico dell’epoca contemporanea, motore di progresso civile e culturale proprio attraverso la lotta e il lavoro. Ferro dunque come metafora di scontro storico, simbolo del materiale da guerra tra interessi e visioni del mondo opposte. Un intero popolo ha lavorato, sofferto, lottato nel ferro delle officine, dei silos, delle cremagliere e dei tralicci riempiendole di storie e di passioni. Nell’opera di Carnevale le strutture industriali si presentano come cattedrali svuotate di fedi ideali, inutili come oggi sono nell’abbandono del territorio. Esse restano monumenti terribili dell’uso che di esse è stato fatto e della mancanza della loro funzione simbolica e culturale.

La grande questione della rifunzionalizzazione di quei siti, magari come centri commerciali, o di altra destinazione comunque figlia della “gentrificazione” del nostro tempo, pone all’artista grandi quesiti: estetici, storici, anche politici. Si può cambiare di segno questo passato, o addirittura dimenticarlo? Possiamo crederci fortunati e ricchi per non aver più a che fare col lavoro massivo di fabbrica? E’ veramente e solo oro colato il superamento dell’economia di produzione e l’arrivo alla terziarizzazione di massa?

La suggestione di questi interrogativi e il senso di svuotamento che promana dall’opera di Carnevale arriva, sentimentalmente, poeticamente, a sentire risposta nelle parole: «Non con l’oro, ma col ferro si recupera la patria», usate da Furio Camillo al capo dei Galli che assediavano il Campidoglio, e che chiedevano oro per risparmiare gli avversari. Queste parole divennero per i romani un motto di libertà. Le riutilizzò sette secoli dopo un imperatore visionario e rivoluzionario come Giuliano, detto l’Apostata, in risposta agli uomini dei servizi segreti, che lo taglieggiavano chiedendogli sempre più denaro in cambio delle informazioni raccolte a tutela della sicurezza dello stato.

La libertà (un modo di vita, di diritti, di culture), oggi iscritta nelle leggi e nelle costituzioni, è una patria che si difende col ferro del lavoro e del conflitto, anche ideale. E oggi più che mai è minacciata dall’oro del profitto, dell’instabilità liquida, della globalizzazione sregolata. Che non a caso vede nell’archeologia industriale non un patrimonio simbolico ma solo grandi cubature, grandi affari.

L’industria pesante ha inquinato l’ambiente ma ha fondato relazioni umane, sociali, ideali: si era ‘compagni’, e le storie collettive creavano un senso. Oggi si può rimediare all’inquinamento ambientale ma la desertificazione dei rapporti lavorativi e sociali provoca un vuoto spaventoso. «L’unica via di (parziale) recupero di questo senso perduto – afferma Alessandro Carnevale – sta nel far rivivere i luoghi industriali col lavoro del pensiero e dell’arte, il solo che ha pari dignità di quello di fabbrica ed è altrettanto fondativo di relazioni umane e di conflitto di idee».

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