Lettera al direttore

La testimonianza

“Una mattinata in ospizio”: Nicolick racconta il suo incontro con un partigiano

"Non è stato tempo perso ho imparato delle cose sull'animo umano, sulla sua protervia, sulla arroganza del male"

Ricevo una telefonata da un numero che non conosco, è una mattina piovosa , chi parla afferma di essere la nipote di un vecchio partigiano, nato nel 1924, la donna mi dice che il nonno vuole parlarmi, sa che racconto cose in giro su quello che fecero i partigiani nel 1945, soprattutto quelli comunisti, ha letto e sentito qualcosa di quello che dico e insiste da qualche giorno per parlarmi. La donna mi dice che il nonno si trova costretto in un letto , ricoverato in una RSA della provincia di Savona,da qualche mese. Gli anni sono tanti e manca poco, penso io, decido di andarci anche se controvoglia, magari oltre dirmi delle sciocchezze potrebbe dirmi cose interessanti per le mie ricerche sul campo.

L”istituto è a una decina di chilometri da Savona, accanto ad un’area verde frequentata dai bimbi e dalle loro mamme, alla portineria mi fanno salire al primo piano, percorro un corridoio e chiedo dell’ospite. La camera dove entro è piccola con due letti, in quello accanto alla finestra c’è un uomo molto anziano con lo sguardo sperso verso l’esterno, le mani lungo i fianchi, molto magro. Una donna seduta accanto a lui, si alza e mi saluta, è la nipote che mi ha telefonato, dopo avermi ringraziato per essere lì esce a farsi un caffè, almeno così dice. Mi siedo sulla sedia accanto al letto e saluto l’uomo.

Appare molto debole, senza dentiera, indossa una maglietta della salute, ha una flebo attaccata ad un braccio, la pelle grigiastra, appena si accorge della mia presenza mi saluta con un cenno del capo e inizia a parlare lentamente. Devo avvicinarmi molto, con il capo accanto al suo viso, mi sento ridicolo, mi pare di assomigliare ad un prete nell’atto di raccogliere una confessione, proprio io che non ho simpatia per il clero.

L’uomo racconta, della sua giovinezza, era in una SAP, una squadra di azione patriottica, che di patriottico aveva solo il nome. Una cellula terroristica con l’incarico di eliminare fisicamente i fascisti uno per uno, per strada, sul lavoro o tra i famigliari, senza remore alcuna, inafferrabile, fatta apposta per spargere il terrore tra i Repubblichini.

Mi dice, con malcelato orgoglio, di essere stato ieri, oggi e per sempre comunista, per sempre a quell’età mi sembra un po ottimistico, forse intende oltre la morte.

Mi ha chiamato perchè vuole riaffermare il suo essere e il suo agire, di cui non è assolutamente pentito, mi racconta di uomini picchiati, derubati e giustiziati per strada, nei campi, nei boschi, senza ragioni valide ma solo in base a dicerie, un po come i processi alle streghe che si facevano nel 600, se qualcuno diceva che eri in combutta con il diavolo, tac , sul rogo.

Era la stessa cosa se qualcuno ce l’aveva con te e diceva che eri fascista o spia dei tedeschi, tac, eri morto con una pallottola in testa.

Mi racconta che oltre ad averne stesi un bel po’, anche di averne occultati altrettanti, per fare uno sgarro ai parenti. La cosa comincia ad interessarmi, mi racconta del Campo dei francesi, un luogo che conosco molto bene nell’entroterra di Vado e Quiliano.

In effetti ci sono state delle voci su quel posto in cui sarebbe interessante fare qualche scavo. A suo dire ci sono diverse fosse mai ritrovate, non ho difficoltà a crederci, è un luogo molto boscoso con bricchi e forre, dove è anche facile smarrire la strada.

Il vecchio continua nel suo comizio e in una pausa mi chiede di aprire l’armadietto e di guardarci dentro, mi alzo e apro lo stipetto, dentro trovo una busta di cellophane, la prendo e la poso tra le sue mani. Capisco subito che indumento contiene, una giubba di foggia militare color kaki, con le spalline, con due tasche sul petto, mancano alcuni bottoni e appare molto lisa sui bordi ma capisco immediatamente che è una casacca da partigiano, sul lato sinistro alcune medaglie, e un triangolo di stoffa di colore rosso con due stellette, in una delle tasche spunta un foulard rosso, oramai di un rosso spento.

L’uomo mi guarda con gli occhi quasi spenti e poi dice che quella è la giubba che indossava, è l’ultima cosa che molti fascisti hanno visto prima di essere assassinati.

Quindi soccchiude gli occhi e si appisola, in silenzio, per non disturbarlo mi alzo ed esco, saluto la nipote e scendo in cerca di un bar per farmi un caffè.

Non è stato tempo perso ho imparato delle cose sull’animo umano, sulla sua protervia, sulla arroganza del male, sulla ottusità di certi uomini deformati da idee deviate e devianti.

Ricordo un vecchio Partigiano Lucchese, mi pare si chiamasse Lilio Giannecchini, nome di battaglia “Toscano”, un oscuro geometra, se è ancora vivo dovrebbe avere almeno 93 anni, comandava una brigata Garibaldina, in un video su Youtube, affermò incautamente , sbavando odio, che aveva scannato ottanta prigionieri Tedeschi nel 1945, prigionieri in divisa, protetti dalle leggi di guerra. Forse ho incontrato un personaggio simile, un pensiero emerge con vivacità, ammesso che sia vera l’esistenza di un aldilà, spero che le sue vittime lo aspettino in quel posto per dargli il benvenuto.

Roberto Nicolick

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