Savona. E’ diventata esecutiva la sentenza di condanna a due anni di reclusione (senza sospensione condizionale della pena) che la Corte d’Appello di Genova aveva pronunciato nel maggio scorso nei confronti del dottor Andrea Piccardo per la morte della signora Rosa Pera Moraglio, scomparsa nel 2009 dopo aver subito un intervento chirurgico per rimuovere una cisti renale nell’ospedale di Cairo Montenotte. Ieri la Corte di Cassazione ha infatti respinto il ricorso che era stato presentato dal medico contro il verdetto di secondo grado confermando in toto la sentenza dei giudici genovesi.
In terzo grado è stata quindi anche confermata la condanna al pagamento di una provvisionale da 500 mila euro per la parte civile, il marito e i due figli della signora Moraglio, che erano assistiti dagli avvocati Amedeo Caratti e Massimo Badella. Proprio l’avvocato Badella, durante la discussione davanti alla Corte di Cassazione, ha sostenuto la sussistenza dei presupposti del reato. Tesi contestata invece dall’avvocato Pietro Castagneto, che insieme alla figlia Elena assisteva Piccardo, secondo cui non c’era nessuna colpa medica.
In primo grado Piccardo era stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione per omicidio colposo, pena che era stata appunto ridotta di diciotto mesi in Appello ed è poi stata confermata ieri in Corte di Cassazione.
Un verdetto che gli avvocati Badella e Caratti hanno accolto con grande soddisfazione: “E’ stato riconosciuto l’errore medico perché quell’intervento non andava fatto. Già dal 2009 abbiamo creduto in questa vicenda e adesso è stata pronunciata la parola fine. Ora che la sentenza è esecutiva si partirà con la causa civile per la quantificazione del risarcimento danni definitivo”.
In primo grado il giudice aveva ritenuto fondato l’impianto accusatorio secondo cui l’intervento chirurgico non era necessario e aveva provocato la morte della paziente.
Una tesi che è sempre stata contestata con determinazione dal legale di Piccardo, l’avvocato Elena Castagneto che infatti ha sempre impugnato il verdetto fino ad arrivare al terzo grado di giudizio.
Nella’arringa difensiva del processo di primo grado, articolata in sette punti, il difensore aveva confutato le contestazioni mosse al suo assistito. Il primo concetto chiamato in causa era “l’assenza del nesso di causalità tra l’intervento e il decesso della paziente”, ma il difensore si era soffermato anche sulle cause della morte (“un infarto”) ribadendo che non c’era un collegamento diretto con l’operazione. Secondo la difesa inoltre il dottor Piccardo, che all’epoca dei fatti contestati era primario di chirurgia a Cairo, non poteva rendersi conto della situazione compromessa del cuore: “Sia il cardiologo che l’anestesista non avevano riscontrato rischi in riferimento all’intervento”.
A sostegno della sua tesi il legale di Piccardo aveva anche fatto riferimento alla perizia redatta dal consulente dell’accusa secondo cui “non si può affermare con certezza né con alta probabilità che in caso di condotta diversa dei sanitari l’exitus sarebbe stato diverso”.
Dopo la riformulazione della sentenza, in Corte d’Appello, l’avvocato Castagneto aveva commentato: “Non condivido la condanna, ma comunque c’è stata una riduzione considerevole della pena e questo significa che le nostre osservazioni sono state recepite”.