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“Ferrania”, viaggio esclusivo di IVG in quello che fu il cuore della produzione di pellicola fotogallery video

Sconsigliamo la visione di foto e video ad ex dipendenti e "frequentatori" di quello che è stato uno dei più importanti stabilimenti industriali dell'Italia dal dopoguerra all'inizio del nuovo millennio

Cairo M. L’occasione che apre le porte dello stabilimento sono le giornate del FAI, programmate per oggi e domani, che ogni anno permettono a milioni di italiani e non di visitare palazzi, musei e strutture solitamente chiusi al pubblico. Così questa mattina insieme al vicensidaco di Cairo, Stefano Valsetti e allo storico direttore dello stabilimento, l’ingegnere Giuseppe Ghiazza, abbiamo avuto la possibilità di entrare nei labirinti – perché così si chiamavano i corridoi neri e privi di luce che portavano alle stanze dove gli operai facevano “la magia” – della fabbrica “Ferrania di Cairo Montenotte.

La prima sensazione che si avverte entrando nel capannone, dove dal 1970 al 2006 si era concentrata la produzione della pellicola, è quella di trovarsi in uno scenario post apocalittico: un po’ come nella zona rossa del centro storico de L’Aquila, sembra che, per una qualche ragione, i lavoratori della fabbrica siano usciti all’improvviso, lasciando ogni cosa dov’era, senza fare più ritorno nei loro uffici.

Le piante secche sulle scrivanie, i camici appesi negli armadietti, i crackers e le caffettiere nella mensa, giornali, riviste, documenti, computer e ovviamente tutti i macchinari usati per la produzione: è tutto quello che resta di quella che, per 60 anni, è stata l’azienda italiana in grado di tenere testa a tutte le multinazionali del mondo.

C’è la bicicletta ormai distrutta dal tempo, ma ancora legata al palo con il lucchetto, gli armadietti che dentro hanno ancora gli effetti personali di alcuni dei 4000 lavoratori che tutti i giorni entravano in quella che definire fabbrica è assolutamente riduttivo: basti pensare che per spostarsi all’interno dello stabilimento servirebbe una cartina e anche in quel caso, se non accompagnati, sarebbe difficile potersi orientare.

Oggi è in corso la demolizione, o meglio è ancora in corso la svendita di tutto quello che è ancora commerciabile (ed è tanto). “Questo macchinario è ancora perfettamente funzionante – spiega un lavoratore addetto allo smantellamento – e finirà, come quasi tutto il resto, in Cina dove ricomincerà a produrre pellicola. Sono già partiti oltre 100 container e altri li seguiranno”.

Il “cuore” della fabbrica era nella zona centrale della palazzina a sei piani perché la luce era nemica della pellicola: per questo i lavoratori molto spesso passavano ore ed ore al buio. E così bui erano anche i corridoi dell’edificio dove le porte erano segnalate soltanto da una piccola luce verde. Per passare dalle stanze illuminate a quelle che non avevano nemmeno le luci appese al soffitto c’erano appunto i “labirinti” o le porte girevoli, per evitare che il minimo raggio di luce potesse filtrare e vanificare il lavoro bruciando le pellicole.

A Ferrania si faceva tutto “in casa”: dalla pellicola al confezionamento, dalla grafica al packaging e tutto è ancora lì. Chilometri di rulli plastici pronti per essere stampati e diventare dei sacchetti, scatoloni e scatoloni di cartoncini pronti per impacchettare i rullini (quelli che tutti gli over 15 hanno tenuto in mano almeno una volta nella loro vita).

Girare senza un accompagnatore è impossibile: “Dopo la chiusura una persona si intrufolò nella palazzina, ne uscì dopo un paio di giorni e non è una leggenda” racconta una delle guide del tour. Ora invece la Ferrania è una carcassa che entro la fine dell’anno sarà completamente demolita: essendo una palazzina recente è assolutamente priva di significato storico-industriale.

Il comune sta dando la caccia ad alcuni pezzi “pregiati” come spiega Valsetti: “Il museo aprirà non prima di 18/24 mesi ma stiamo contrattando con le ditte che si occupano dello smantellamento perché alcuni pezzi pregiati non finiscano in Cina o in India, ma restino come memoria di quello che questa fabbrica ha rappresentato per la Valle Bormida, la Liguria e per l’Italia intera”.

Veniamo poi scortati nella palazzina H: “Qui difficilmente sono entrati dei non addetti ai lavori”. Entriamo dagli spogliatoi e anche qui gli armadietti raccontano quello Ferrania è stata, alcuni sono ancora chiusi con il lucchetto: “Abbiamo trovato di tutto, in uno c’era una giacca di pelle praticamente nuova con un mazzo di chiavi di una macchina – spiega il nostro cicerone – e poi tantissimi effetti personali, come se i lavoratori avessero voluto lasciarsi tutto alle spalle”.

Le caldaie sono già sparite e al loro posto ci sono dei buchi alti 3 piani, a breve partiranno decine e decine di motori e i macchinari che ancora non sono stati smontati. Quando si torna alla luce del sole la sensazione è quella di essere riemersi da un viaggio nel tempo: i calendari alle pareti erano fermi a seconda delle stanze, dal 1999 al 2006, i giornali, le riviste (porno e non) i computer, le sale controllo riportavano ad un’epoca oramai dimenticata. E poi ci si trova davanti al grande capannone bianco e ipermoderno, quello che doveva rappresentare la nuova Ferrania. Quella dei pannelli solari e delle energie alternative che, di fatto, non è mai decollata.

Alla fine di questo “viaggio” nella Ferrania viene da chiedersi: se anziché essere “svenduto” alla cordata genovese, lo stabilimento fosse stato ceduto alla cordata indiana dove Bolliwood – secondo mercato cinematografico mondiale – è ancora basato sulla pellicola, il finale di questa storia sarebbe stato diverso?

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